Guerre digitali

Reale e virtuale. Zuckerberg e Assange. La vulnerabilità della Rete. Lo scontro governi - hacker. La militarizzazione del cyberspazio.
Simulazione di guerra globale

Oggi due mondi viaggiano in parallelo: il “reale”, che conosciamo bene, ci viviamo da quando siamo nati, e il “virtuale”, fatto di computer, Internet, cellulari, dove i più giovani passano tanto tempo, a volte esagerando e sfiorando la patologia da troppo virtuale, col rischio di superficialità, mancanza di identità, incapacità di rapporti nel mondo reale. Hanno quindi ancora bisogno di una mano per non rimanere soli.

Gli adulti, però, non sembrano all’altezza: o navigano entusiasti, trascorrendo troppe ore al computer, oppure, all’opposto, rischiano di rimanere tagliati fuori, quasi espulsi dal corpo sociale. Vorrebbero aiutare i figli, guidandoli e proteggendoli con la loro esperienza, come hanno fatto i loro padri; ma conoscono poco questo mondo e lo vivono come ambiente estraneo, artificiale. L’unica speranza è allearsi: i giovani competenti del virtuale, gli adulti esperti di vita e valori (che non cambiano con le mode o le tecnologie).

 

Secondo la rivista Time, il personaggio dell’anno è il giovane Mark Zuckerberg, diventato miliardario con Facebook, la piazza telematica mondiale dove si incontrano senza sosta 500 milioni di “amici”. Figura ambigua, secondo alcuni, colpevole della cosiddetta “immortalità informatica”, che mette a nudo, come in una vetrina incancellabile, foto, pensieri, storie, vite. Ma anche il suo concorrente alla nomina, Julian Assange, proviene dallo stesso mondo. Tramite il sito WikiLeaks, il 22 ottobre 2010 ha messo in rete 400 mila documenti riservati sulla guerra in Iraq. Qualche mese dopo è stata la volta dei documenti diplomatici segreti, prossimamente toccherà alle banche.

 

Assange vuole impedire la militarizzazione degli Stati, sogna un capitalismo etico, odia la censura, conosce il potere destabilizzante di Internet. Ma non rivela le fonti delle informazioni, per cui non può garantire la veridicità dei documenti. Arrestato in Inghilterra e rilasciato dietro cauzione, è uno che ha capito quanto i due mondi, reale e virtuale, possano incontrarsi, influenzarsi, scontrarsi, integrarsi.

Qualcuno dice che lo fa perché è un hacker. E infatti la comunità di questi giovani idealisti, “smanettoni” della Rete, si è mobilitata in sua difesa, attaccando vari siti tra cui quelli del governo svedese e delle società che gestiscono le carte di credito. L’amministrazione Obama è corsa subito ai ripari assumendo altri hacker. Per la prima volta, dunque, assistiamo ad un confronto aspro e globale tra i governi, messi alla berlina in Rete, e la comunità di quelli (molti) che credono nella natura libera e trasparente di Internet, disposti a tutto per difenderla.

 

La situazione, però, è più complessa: senza Internet gli Stati si fermerebbero. Le grandi infrastrutture che controllano la vita delle nostre complesse società sono basate su reti di computer più o meno protette, più o meno interconnesse tra di loro. Quindi sono tutte, più o meno, vulnerabili ad incursioni che arrivano attraverso Internet. I recenti attacchi sono solo noccioline, un assaggio di quello che potrebbe succedere con le cosiddette cyberwar e cyberwarfare, guerre condotte senza uso di cannoni, solo tramite computer che interrompono, da lontano, le comunicazioni e i processi del nemico basati su infrastrutture informative. Per esempio: produzione e distribuzione di elettricità, telecomunicazioni, fornitura carburanti e acqua, finanza, protezione civile, sanità, informazione tv e radio. Se consideriamo l’effetto a catena che disservizi multipli potrebbero portare, possiamo dire che la normale vita civile e sociale si fermerebbe. Semplicemente.

 

I governi si stanno attrezzando per difendersi da attacchi (e ricatti) a queste infrastrutture provenienti da gruppi terroristici o governi ostili. Il Pentagono ha lo Strategic Cyber Command. La Nato il Centro per la cyberdifesa a Tallin in Estonia. All’Onu qualcuno comincia a chiedere un trattato per la pace nel cyberspazio. Altri Stati tentano di isolare le proprie reti nazionali di computer, staccandole da Internet e imbavagliando, di conseguenza, il libero scambio di informazioni e di idee.

Insomma, la Rete si militarizza. Non è una buona notizia e non vorrei concludere questo articolo con una nota troppo negativa; e tuttavia dobbiamo essere coscienti che le possibilità del virtuale sono in fase di sfruttamento anche da parte dei militari.

Si stanno gradualmente sostituendo i soldati umani con mezzi automatici, a controllo elettronico remoto, tipo i famigerati “droni” che, volando silenziosi ad alta quota, possono individuare e colpire con missili teleguidati bersagli in qualsiasi Paese del mondo. Si chiama guerra elettronica e non ha frontiere. Per fortuna è già iniziata anche una mobilitazione internazionale contro questo tipo di armi e la militarizzazione del cyberspazio. Facciamoci sentire, anche se non siamo esperti di Internet. Parliamone insieme con i più giovani, loro sapranno come fare.

 

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Un gioco creativo di alto livello

Hacker si potrebbe tradurre con “smanettone”, “chi ascolta”, “ribelle”. Gli hacker non sopportano di essere confusi con i cracker, criminali informatici che attaccano i sistemi per violarne la sicurezza e creare danni. Secondo gli hacker, i cracker sono solo maschi adolescenti e irresponsabili, “idioti” scarsamente intelligenti.

Al contrario, l’hacker intende costruire, risolvendo i complessi problemi che ci sono in giro per il mondo. È una sfida che significa coinvolgimento emotivo, divertimento, volontarietà, gratuità, lealtà nei confronti della ristretta comunità nella quale si entra solo per reputazione, cioè se si è riconosciuti “degni” di farne parte, come stile di vita e come competenza. La soluzione trovata, se utile alla gente, alla fine verrà regalata ai navigatori della Rete.

Per questo l’hacker deve saper programmare i computer, conoscere i segreti di Internet e dei suoi linguaggi, parlare in inglese. Con queste abilità, scrive o migliora “software libero”, cioè programmi il cui codice viene condiviso con i navigatori della Rete. Risponde alle domande tecniche più difficili e coopera volontariamente per far funzionare Internet. Predilige la fantascienza, le arti marziali, la meditazione, la musica e i giochi di parole. Il paragone che mi viene in mente è con i samurai giapponesi dell’Ottocento. O con una pseudo-religione.

L’hacker non tollera ostacoli nella risoluzione di un problema; per cui sarà sempre nemico di censura, copyright, segretezza, inganno, uso della forza. In una parola, è allergico ad ogni autorità, ad eccezione del minimo necessario per la convivenza civile. Non cerca la fama, ma solo il riconoscimento della comunità dei suoi (pochissimi) pari, brillanti e abili come lui. Nella società predilige un basso profilo, meglio ancora se è emarginato dalla gente comune: ha altro da fare, deve risolvere “affascinanti” problemi, informatici e non solo. È questo l’unico vero scopo della sua vita. Il resto è noia.

Logica fuori dagli schemi, indipendenza, gioco, libertà, gratuità, orgoglio: per loro farebbe qualsiasi cosa. Se gli chiedete qual è la sua cultura, vi risponderà quasi sicuramente: la “cultura del dono”.

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