“La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale” è un libro uscito qualche anno fa, scritto da Sherry Turkle,”antropologa del cyber spazio”; ricostruisce gli effetti della pervasiva rivoluzione digitale in quello che l’autrice sintetizza come un “assalto all’empatia”.
Sfogliandolo in libreria ho avuto la tentazione di lasciarlo sullo scaffale. Forse perché le poche frasi carpite mettevano a nudo molti comportamenti che avrei preferito non riconoscere… anch’io ho subito le malie del mondo virtuale che rischia di straniare e condizionare le relazioni umane!
“Guardami quando mi parli” ci dicevano le nostre nonne quando eravamo bambini. Oggi anche noi adulti e non solo i giovani, abbassiamo spesso lo sguardo nel corso di una conversazione, non per fuga o imbarazzo, ma sul nostro telefonino. E questo zapping continuo fra chi ci sta difronte e lo schermo che ci accompagna sembra la cifra del nostro tempo. È stato misurato che un adulto americano controlla mediamente il telefono ogni sei minuti e mezzo.
D’altro canto il cellulare, con tutte le opportunità di connessioni a mondi “altri”, ci offre un costante riempitivo a momenti di noia o frustrazione: possiamo rispondere ai messaggi, navigare e interagire nei social, o semplicemente tuffarci nel grande oceano virtuale per guardare un video o ascoltare un pezzo musicale, giocare e molto altro. Un piano B sempre a disposizione, a condizioni che ci sia segnale!
Secondo la studiosa americana diversi sono gli effetti dell’ambiente virtuale sulle nostre vite.
Nella nuova realtà “ibrida” il nostro cervello si abitua ai piacevoli stimoli della connessione, rendendo nella nostra percezione obsoleti e spesso meno coinvolgenti i momenti di conversazione con le altre persone, istituendo così una competizione fra stimoli di entità e valore diversi: è facilmente intuibile come le meno faticose, più veloci e apparentemente ricche interazioni virtuali possano sostituire (e in parte l’hanno già fatto) la fatica e il ritmo lento del dialogo umano, almeno nel brevissimo termine.
Questa sostituzione fra fisico e virtuale, insieme ai tanti benefici, porta come primo e rilevante effetto che è la drastica riduzione dell’empatia: diversi studi mostrano che persone troppo connesse perdono la capacità di riconoscere i propri sentimenti nonché di comprendere quelli altrui. E può diventare un’efficace strategia di evitamento quella di mandare un messaggio per evitare un coinvolgimento o una responsabilità emotiva. Ecco che le persone si lasciano con un msg, o un’impresa (ma anche altre organizzazioni) licenzia con un’email.
Altri studi evidenziano i danni sui bambini cresciuti da genitori troppo connessi ai dispositivi e sconnessi dai loro bisogni: la mancanza di conversazioni, di storie raccontate con lo sguardo e con l’allineamento emotivo oltre che con le parole, crea un senso di abbandono e allo stesso tempo riduce l’acquisizione di competenze psico-linguistiche e relazionali fondamentali per il loro futuro.
Si pone anche un tema di rapporto con l’interiorità. Se il nuovo ambiente sposta il nostro pensiero su noi stessi dalla conoscenza e dalla riflessione profonda alla costruzione di una visione temporanea e superficiale di noi stessi, tra immagini, like e quello che si chiama “personal branding”, diventa più complesso conoscersi in modo autentico e realistico, sapere stare da soli, coltivare e accedere a quella dimensione interiore da cui prendono forma idee creative e sentimenti, scelte e valori. Si rischia pertanto di vivere una vera e propria dissociazione, con paradossali effetti di invidia fra l’identità reale e quella virtuale.
Gli algoritmi inoltre tengono traccia di tutte le nostre attività. Questa misurazione ha dato vita addirittura ad un movimento che si chiama “Sé quantificato” i cui membri periodicamente si incontrano per raccontarsi a partire dai report prodotti dagli algoritmi, o meglio a valutare i risultati realizzati o i fallimenti certificati. Qualche algoritmo si spinge oltre, fornendo addirittura consigli a seconda dell’evoluzione dello stato emotivo fornito dall’utente. Ovviamente queste misurazioni colgono solo una parte della nostra vita, rischiando di farci perdere pezzi importanti del nostro vissuto, che sono quelli che ci consentono di dare un senso alle nostre esperienze, di farci inoltrare in nuove strade e che spesso emergono in un dialogo libero con persone di cui ci fidiamo, in cui tutto il nostro corpo comunica.
Cosa fare?
Herbert Simon direbbe – parafrasando il titolo del suo saggio – che bisogna progettare organizzazioni e istituzioni in una società ricca di informazione, suggerendo di testare le nuove tecnologie, prima di renderle disponibili a tutti.
Forse non abbiamo seguito a sufficienza i consigli dello studioso americano, ma qualche passo si può fare.
Ritorniamo alla conversazione fisica, è l’invito di Sherry Turkle. Che non vuol dire rinunciare all’ambiente virtuale, ma sapersene distaccare per coltivare l’intera espressione umana che l’ambiente virtuale necessariamente riduce – si tratta in fondo di un limite tecnologico.
Ma ci sono buone notizie sul tema. Diversi esperimenti in campi estivi “device free” con bambini mostrano che in pochi giorni vengono recuperate capacità empatiche. In varie parti del mondo alcuni ristoranti offrono uno sconto ai clienti che rinunciano temporaneamente ad usare dispositivi mobili a tavola. I patti digitali promuovono alleanze educative tra famiglie ed educatori per una gestione consapevole della realtà virtuale. Fra gli addetti ai lavori digitali si propone un giuramento come quello di Ippocrate per i medici per creare una deontologia.
Insomma, sempre più emerge la consapevolezza che “Molti sorsi di connessione non fanno una sorsata di conversazione” come ricorda Sherry Turkle.
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