Gala Rachmaninoff

La Prima Sinfonia, irruenta e “barbarica”. Poi Chopin, momento toccante.
Gala Rachmaninoff

Immaginarsi due ventiseienni a Santa Cecilia in Roma. Il primo, un venezuelano di fuoco, Diego Matheuz, della scuola sostenuta da Claudio Abbado e che ha generato direttori come Gustavo Dudamel; il secondo, l’ucraino Alexander Romanovsky, aristocratico di razza, a 17 anni già definito “un talento” da un musicista riservato come Giulini.

 

È un incendio. La Prima Sinfonia di Rachmaninoff, diciamolo subito, irruenta e “barbarica” nelle voluttuose arcate dei violini e nei tuoni degli ottoni, è di sicuro effetto, ma non straordinaria. Non piacque a suo tempo, e oggi piace solo un poco di più, anche se Matheuz impiega anima e corpo a suscitare torrenti sonori alti come le onde del Pacifico. Il concerto n. 3 per pianoforte e orchestra (quello che tutti conoscono per via del film Shine) è un mostro di virtuosismo: Romanovsky precipita fraseggi potenti, assoli di tecnica meravigliosa, si muove come fosse a casa sua. La musica si vede che ce l’ha nel sangue, e quel corpo esile e romantico sprigiona una passione che non ci si aspetterebbe, anche perché Matheuz accompagna molto bene. Quando i giovani musicisti collaborano è davvero una gran cosa.

 

Eppure, il momento toccante non è stato questo, per quanto osannato dal pubblico. Romanovsky regala un bis, ed è Chopin.

La sala è silenziosa, sembra una persona sola. L’attacco in pianissimo è di una delicatezza rara, e la melodia, che ricorda tanto Bellini, si alza in trilli insistiti e in “volate” nelle zone sovracute così aerea e soffice da far venire un brivido. Questo ragazzo, in quest’attimo, possiede lo spirito di Chopin, viene da dire. Sono i momenti inattesi della bellezza assoluta, in un concerto. Un boato riconoscente di applausi.

 

 

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