For you

In prima assoluta in Italia, al teatro Olimpico di Roma, l’opera in due atti diretta da Vittorio Parisi e musicata da Michael Berkeley.
michael berkeley

L’Accademia filarmonica romana e l’Istituzione universitaria dei concerti hanno voluto far rappresentare al teatro Olimpico della Capitale, in prima assoluta per l’Italia, l’opera in due atti, su libretto del celebre romanziere Ian McEwan, For you. Reduce da successi internazionali, musicata da Michael Berkeley, l’opera è stata diretta da Vittorio Parisi, complice l’Ensemble Roma sinfonietta, che da dodici anni esegue le musiche del nostro Ennio Morricone.

 

La trama è semplicissima e non nuova per il teatro. Un celebre direttore d’orchestra, sir Charles, incallito dongiovanni come molti colleghi del passato (Furtwangler e Toscanini) e del presente (per spirito di pietà, tralasciamo i nomi) s’innamora della cornista Joan, usando il solito sistema: umiliarla, finché si prostrerà ai suoi piedi. In casa, la moglie, malata, ha una simpatia per il suo medico. Ma c’è anche la cameriera polacca, Maria, che adora il direttore, il suo idolo, e per questo è disposta a tutto. La moglie viene ricoverata in ospedale, dove sir Charles cerca di consolarla con i ricordi del loro passato amore (sembra di rivivere alcuni passi della biografia di Toscanini). Un incidente (?) porta la poveretta alla fine. Charles verrà accusato di averne provocato la morte – in realtà è stata la cameriera – ed egli, in prigione, espierà i suoi trascorsi, quasi come il Don Giovanni mozartiano. Lei, Maria, lo andrà a trovare, lo consolerà. Sarà tutto suo: for you, per te, gli dirà, ho fatto tutto questo.

 

Su questo racconto non proprio originale, se non nel beffare alcuni luoghi comuni sui musicisti, la musica di Berkeley propone un “recitar cantando” sul mormorio dissonante dell’orchestra, che la fa assomigliare ad una sorta di “radiodramma”. Non è una musica che desti sorprese particolari, anche se i cantanti-attori ci mettono tutto l’impegno possibile: si colloca in un percorso novecentesco, usa gli strumenti come altrettanti “caratteri” della narrazione, scherza, sogghigna – in particolare, con gli ottoni – ed ha un umorismo tutto inglese, ammiccante e a tratti sulfureo.

 

Non si tratta di un capolavoro, al di là degli applausi meritati dagli esecutori e della bravura sia del librettista come del musicista. Un’opera di oggi, cioè “mentale”, costruita appositamente per divertire (e far pensare). Le manca tuttavia, a mio parere, la leggerezza che lascia libera la fantasia.

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