Festa grande per Wojtyla beato

Dopo sei anni e 29 giorni dalla morte, il primo maggio a Roma la cerimonia di beatificazione di Giovanni Paolo II
Giovanni Paolo II beatificazione

È il papa dei record anche in fatto di santità. Anche se di poco. Madre Teresa fu elevata agli onori degli altari dopo sei anni e 44 giorni dalla sua scomparsa. Giovanni Paolo II sarà beato il primo maggio dopo sei anni e 29 giorni. 15 giorni di differenza. Nella società quantitativa in cui viviamo i numeri fanno notizia. E, del resto, i dati su Giovanni Paolo II parlano da soli. Le statistiche ci dicono che Karol Wojtyla ha compiuto 146 viaggi in Italia e 104 all’estero, raggiungendo 259 località italiane e 131 Stati indipendenti. I giorni trascorsi fuori dal Vaticano, senza contare i 164 giorni passati in ospedale, toccano quota 822, pari all’8,5 per cento dell’intero pontificato.

 

Nella società dello spettacolo in cui siamo immersi abbiamo visto i suoi gesti, ascoltato le sue battute umoristiche, ammirato il suo esempio, seguito il suo calvario che lo ha portato ad una riconosciuta fama di simpatia, umanità, santità. Da quel «santo subito» gridato dalla folla in piazza San Pietro il giorno dei suoi funerali, si è svolto un processo di beatificazione che ha ascoltato 114 persone tra cui tre non cattolici e un ebreo per accertare il modo eroico con cui ha vissuto le virtù della fede, speranza, carità, giustizia, fortezza, temperanza, castità, povertà, obbedienza. Ciò che sorprende è che da questa immensa mole di documenti e testimonianze non è emerso nulla di nuovo sulla sua figura. «Non esiste un Giovanni Paolo II mediatico – ha scritto mons. Slavomir Oder, postulatore della causa, nel libro Perché è santo – e un Giovanni Paolo II privato. La vera scoperta è stata quella di comprovare che Giovanni Paolo II era un vero uomo e un uomo di Dio».

 

È impossibile evidenziare i molteplici aspetti della sua ricca personalità, della complessità del suo pensiero, tutte le novità e aperture del suo pontificato: la volontà di unità con le diverse Chiese cristiane, l’incontro di Assisi e il dialogo con persone di altre fedi e religioni, l’invenzione delle Giornate mondiali della gioventù, i viaggi missionari, la prima visita ad una sinagoga dopo duemila anni di cristianesimo, il riconoscimento del ruolo della donna, dei laici e dei movimenti ecclesiali, l’attenzione ai diritti dell’uomo, il senso di giustizia, la sensibilità ai poveri, i fatti epocali accaduti, la caduta del Muro di Berlino, del comunismo, l’attacco delle Torri gemelle. E così via.

 

È singolare, però, che Giovanni Paolo II, durante una colazione a Castel Gandolfo disse: «Non so se la storia si ricorderà di questo papa; penso di no. Se lo farà, vorrei fosse ricordato come il papa della famiglia». Una famiglia, la sua, che si dissolve velocemente. La mamma Emilia scompare per una malattia cardiaca quando il giovane Karol non aveva compiuto ancora nove anni, il fratello Edmund, per un’epidemia di scarlattina, solo tre anni più tardi. Nel 1941 a soli 21, il papà muore e Karol rimane solo. La perdita dei cari, il dolore della solitudine, generano però un allargamento del cuore. La sua nuova famiglia, forgiata da una vita dura sotto il comunismo e dal lavoro nelle fabbriche, diviene formata dagli amici di gioventù, i compagni di seminario, i parrocchiani, i sacerdoti, le persone del mondo intero, riuscendo a stabilire un contatto relazionale con chiunque.

 

L’affetto per i suoi amici di vecchia data non venne mai meno, anche se eletto papa. È il caso di Jerzy Kluger, un compagno ebreo delle elementari trasferitosi a Roma come ingegnere. Un giorno si sentì chiamare al telefono, era il suo vecchio amico Karol, detto Lolek, che lo cercava. Dalle sue famose gite con i giovani quand’era ancora parroco nacque l’appellativo di wujek, zio. Soprannome che rimase anche da papa.

 

Tra le tante testimonianze del processo di beatificazione si annota anche questo episodio: «Tutte le volte in cui, da vescovo e da cardinale, era di passaggio a Roma, i sacerdoti polacchi impegnati in Vaticano avevano l’abitudine di invitarlo per festeggiare onomastici e compleanni. Se non aveva impegni inderogabili, Wojtyla accettava volentieri. Quando divenne papa, uno dei suoi vecchi amici non aveva il coraggio di invitarlo per la ricorrenza dell’onomastico. Una sera fu ospite a cena nel Palazzo apostolico e Giovanni Paolo II lo rimproverò con fare scherzoso: “Quando ero cardinale mi invitavi, adesso da papa non mi inviti. Che io venga o non venga è un conto, ma l’invito dovrebbe esserci sempre!”».

 

E quel clima di famiglia, nel 2000, lo definì come uno dei segni della “spiritualità di comunione” presentata nella Novo Millennio Ineunte per tutta la Chiesa, fatto di rapporti personali, di condivisione delle gioie e dei dolori, del prendersi cura dei bisogni dell’altro, nel riconoscere il valore di ogni persona, nel seguire le situazioni personali, nel saper costruire una vera amicizia; fino ad allargarsi come cerchi concentrici oltre i confini della Chiesa su tutta la società, gli Stati, le religioni, superando gli steccati ideologici e culturali per abbracciare il mondo intero visto come un’unica famiglia umana.

 

In un suo straordinario discorso a Casablanca, nel 1985, davanti a giovani musulmani che riempirono uno stadio, ricordò con realismo che il mondo è diviso e frantumato, conosce guerre e gravi ingiustizie perché gli uomini non sono capaci di liberarsi dall’egoismo e dall’autosufficienza, ma che «l’umanità è un tutto in cui ogni gruppo ha il suo ruolo da svolgere; bisogna riconoscere i valori dei diversi popoli e delle diverse culture. Il mondo è come un organismo vivente; ciascuno ha qualche cosa da ricevere dagli altri e qualche cosa da dare loro». 

 

Incoraggiava così i giovani marocchini a far cadere le barriere, ad amare gli altri senza alcuna frontiera di nazione, di razza o di religione. «Allora – concludeva – potrà nascere, ne sono convinto, un mondo in cui gli uomini e le donne di fede viva ed efficiente canteranno la gloria di Dio e cercheranno di costruire una società umana secondo la volontà di Dio». Un mondo più unito, solidale, fraterno, capace di far vivere insieme universi differenti.

 

Il segreto, la radice di tale visione della storia, è nascosta nel suo intimo. «Cercano di capirmi dal di fuori – spiegò Giovanni Paolo II – ma io posso essere capito solo da dentro». Così è stato sin dall’inizio.

 

I suoi parrocchiani, siamo nel 1948, nelle campagne ad una trentina di chilometri ad est di Cracovia, così lo ricordano: «Non di rado Wojtyla trascorreva parte della notte in preghiera davanti all’altare, steso a terra con le braccia allargate a croce. La presenza di Cristo nel tabernacolo gli permetteva di avere un rapporto molto personale con lui: non solo di parlare a Cristo, ma proprio di conversare con lui». Un dialogo serrato, ininterrotto che sfiora l’ineffabile, ci fa penetrare nel mistero stesso di Dio e ci guida alla comprensione del vero Giovanni Paolo II, come se l’abisso coincidesse con la vetta.

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