Fayum: dal passato ci guardano

 Al British Museum di Londra una galleria di ritratti unici al mondo rende al vivo, con stupefacente realismo, un’epoca in cui razze, lingue e culture diverse si incontrarono nell’antico Egitto
Fayyum
 Isarous contemplò l’effetto finale della coroncina di loti blu appena colti: li aveva composti artisticamente con l’aiuto di Didyme, la sua bambina, non senza commuoversi al pensiero di quella che avrebbe dovuto intrecciare anche per Syros, l’altro suo figlio che un morbo repentino aveva stroncato all’età di due anni. Syros, la cui salma sarebbe giunta l’indomani, essendo ormai compiuto il lavoro dell’imbalsamatore, tra i più abili di Aritinopoli. «Vieni, Didyme, andiamo dalla nonna. È l’ultimo omaggio per lei, che domani ci lascerà, per andare a riposare nella sua dimora definitiva…».

 

Strascicando un po’ i sandaletti in fibra di palma sui lucidi pavimenti a mosaico, Didyme seguì la mamma lungo il porticato che circondava il giardino. Non osava farle domande, la piccola, ma dentro di sé rifletteva: «Certo nonna Aphrodite se ne va per far posto al mio fratellino…».

Quasi l’altra l’avesse sentita, ruppe il silenzio: «Sai, non è soltanto per via di Syros, ahimè non più tra noi, che la nonna va a stare nella Città dei morti. È usanza per i nostri cari defunti, dopo un certo numero di anni trascorsi accanto ai vivi…». Intanto madre e figlia erano arrivate nell’appartato cubicolo che fungeva da cappella di famiglia. Nella penombra troneggiava, appoggiato alla parete di fondo, un sarcofago adorno di strane figurine su fondo oro, che piacevano tanto a Didyme.

 

Deposta la coroncina accanto ad esso, Isarous mormorò una breve preghiera: era cristiana infatti, e tale era pure la figlia; al contrario di suo marito Herakleios, che, ancora vincolato alle tradizioni pagane, aveva fatto dipingere sul sarcofago di sua madre rappresentazioni del dio egiziano Anubi. Da quanti anni la salma di Aphrodite era custodita presso quella agiata famiglia? Didyme, ormai nel suo settimo anno, la ricordava lì da sempre, presenza familiare e silenziosa. Ma certo doveva trovarvisi da molti e molti anni.

 

Per nulla impaurita, ella amava quel luogo sacro, attirata soprattutto dal ritratto della nonna, bene in vista su una parete. Ritratto che gliela raffigurava viva, adorna dei suoi più bei gioielli: gli stessi che rifulgevano addosso alla madre Isarous nelle festività e che un giorno sarebbero toccati a lei. Dalla sua cornice in legno di sicomoro intagliato e dorato, Aphrodite sembrava affacciarsi come da un altro mondo, più sereno e luminoso. Con la bocca socchiusa, sembrava respirasse, che fosse lì lì per dir qualcosa a lei, la nipote. Peccato – si rammaricava Didyme – che il giorno dopo quel ritratto, staccato dalla parete e fissato al posto della testa sulla mummia, sarebbe emigrato nel buio di un sepolcro, dove più nessuno ne avrebbe gioito. Ma era l’usanza…

 

Meglio fermarmi qui, perché chi legge non pensi che stia correndo un po’ troppo con l’immaginazione. A suggerirmi questo tentativo (peraltro verosimile) di ricostruire un episodio di vita quotidiana nell’Egitto del II secolo dopo Cristo, sono alcuni splendidi esemplari di ritratti funerari provenienti dall’oasi del Fayum nell’Egitto ellenistico ed ora nelle collezioni del British Museum di Londra. Del resto sfido chiunque, dopo averne contemplato qualcuno, a non lavorare un po’ anche lui di fantasia, tale è il fascino emanato da queste fragilissime pitture su tavola o su lino, miracolosamente conservate per noi dal clima secco del deserto.

 

L’impressione a caldo è di imbattersi non in persone vissute circa due millenni fa, ma già incontrate, magari al mercato, per strada, o in metro: e ciò grazie alle fisionomie comuni, rese con sorprendente realismo, irregolarità e difetti inclusi; fisionomie ben lontane dalla fissità ideale dei ritratti di epoca più remota cui siamo abituati.  Sono volti dai grandi occhi parlanti,  dall’espressione per lo più serena o velata di malinconia, a volte fiera, stupita o corrucciata. Ci guardano, ma come da un’altra sponda: quella di un’immortalità già raggiunta e tuttavia non ancora trasfigurata. Sculture, mosaici, medaglie e affreschi giunti fino a noi dalle epoche più remote non hanno la stessa potenza evocativa di questi ritratti anonimi, la maggior parte. Come pure nulla sappiamo degli artisti che li dipinsero, se non che furono – negli esempi più belli – gli eredi di quella tradizione naturalistica che ebbe il suo grande centro ad Alessandria, la città più importante del mondo ellenistico.

 

Espressione di arte greca, dunque, ma al tempo stesso di una cultura di stampo romano, a giudicare da acconciature, vestiario e gioielli, specchio puntuale della moda dell’Urbe; e per di più applicati su mummie egiziane, quasi ad appagare quell’esigenza di eternità che ha sempre caratterizzato il popolo del Nilo. Un insieme, insomma, così particolare da fare di tali ritratti un unicum nel panorama della storia dell’arte antica. Dietro ognuno s’indovina una storia. Alla giovane donna dalle vesti in malva e lavanda, stroncata forse da una malattia mortale, non resta che sfoggiare i suoi stupendi gioielli: orecchini con perle e una collana d’oro.

 

Aurea anche la ghirlanda del giovane dalla pelle abbronzata, che ci scruta con grandi occhi pensosi. Sul sarcofago decorato con figure e formule funerarie tipicamente egiziane, uno struggente saluto: «Addio, Artemidoro!». Capelli ondulati secondo la moda dell’età antonina, grandi occhi vividi e labbra atteggiate a un impercettibile sorriso, la “donna con la tunica blu” – come è stata chiamata – fa pendant con il dignitoso militare dai capelli ricci alla Lucio Vero: suo marito o un altro congiunto? Comunque sia, si tratta di due stupendi lavori a encausto, probabilmente di un unico artista, che nel ritratto maschile ha raggiunto effetti impressionistici.

 

Opera d’uno stesso pittore sembrano anche le espressive tavole a tempera di un uomo e di una donna dai tratti marcati, rugosi, e dalle grigie capigliature. Ma questi due attempati coniugi, se tali lo furono, sono delle eccezioni: si moriva infatti piuttosto precocemente in quelle regioni dell’Impero, come testimoniano del resto i numerosi esemplari qui esposti. Valga per tutti la commovente mummia di un bambino di forse otto-dieci anni, avvolta in un sudario con la sua effigie dipinta: è in tunica bianca e mantello, in testa ha una ghirlanda di boccioli di rosa, con la sinistra stringe un rametto di mirto, mentre alza la destra quasi accennando ad un saluto, al di là della teca trasparente.

 

Volti e volti, altrettanti esempi ben riusciti di integrazione tra razze diverse, a giudicare dal ricco campionario di carnagioni e di tratti somatici. A chi appartenevano? Solo di pochissimi sappiamo i nomi e qualche altro dato scarno. Certamente si trattava di un’élite, non essendo in molti a potersi permettere la pratica dell’imbalsamazione e i servigi di un valente pittore. In mancanza di ritratti, sono le iscrizioni su targhe lignee o su bende di lino a informarci dell’identità dei defunti: come nel caso di un Diogenes tessitore o di un Apolinarios, figlio del mercante di lana Diokles, entrambi del distretto di Arsinoe. Di un certo Theanous sappiamo, eccezionalmente, l’età, 54 anni, e che morì il 23 giugno del 182 d.C., 22° anno del regno di Commodo.

 

Non mancano le stele: su quella di un certo Loukios si legge che visse «felice… senza rimprovero fra gli uomini ed eccellente negli affari». Didimo il tornitore parla direttamente dalla sua: «Io ho inciso questo mentre ero ancora vivo: adesso qui giaccio – ha aggiunto un’altra mano – all’età di sessantasei anni»: un record come abbiamo visto. Fra i testi su papiro, dal villaggio di Senepta un rapporto di polizia ci ragguaglia sul caso pietoso di Epafrodito, uno schiavetto di otto anni, che un due di novembre, sporgendosi da una finestra per vedere «le danzatrici con le nacchere, cadde e rimase ucciso».

 

Nessuna meraviglia se dopo questo faccia a faccia i personaggi dipinti rimangono in noi come altrettante “presenze”. Rappresentano l’uomo di sempre, al di là del divario dei secoli. In loro abbiamo ritrovato un po’ di noi stessi.

 

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