Electrolux. Lottare contro il declino

Da dove ripartire per non diventare "una periferia della metropoli industriale". Un piano dei saggi per Confindustria che suscita domande sul futuro del Paese
Zanussi

Il trasferimento annunciato della testa e della cassaforte della Fiat all’estero e la dichiarazione di Electrolux di spostare la produzione italiana nei siti dell’Europa dell’Est non rappresentano un terremoto, ma uno sciame sismico di assestamento che registra lo scontro paradossale tra due esponenti dello stesso partito democratico.

La governatrice del Friuli, Debora Serracchiani, è arrivata a chiedere le dimissioni del ministro allo Sviluppo economico Flavio Zanonato per non avere difeso la produzione dello stabilimento Electrolux di Porcia, in provincia di Pordenone, ed è diffusa la sensazione di un certo immobilismo del governo, che ha ottenuto l’apertura di un tavolo con impresa e sindacati per il 17 febbraio.

Un’analisi molto lucida della situazione proviene da Maurizio Castro, senatore eletto con il centrodestra, manager per lungo tempo della multinazionale svedese in Italia e grande sostenitore della partecipazione dei dipendenti secondo il modello delle relazioni industriali di tipo scandinavo. Secondo Castro non si può accettare in maniera ineluttabile il declino del settore degli elettrodomestici senza decretare per l’Italia la «condanna a un declino violento e irreversibile».

Affermazioni ponderate ma pesanti che delineano, nel caso della scomparsa del patrimonio industriale nel Nord-est, un futuro da «turbolenta periferia della metropoli industriale globale, una brulicante colonia il cui sfruttamento spietato sarebbe oggetto di contesa tra la tradizionale potenza germanica e il nuovo espansionismo cinese». Il tipo di globalizzazione che si è imposto non esporta solo il lavoro all’estero ma «introduce povertà nella busta paga dei salariati occidentali», per usare la facile preveggenza che Giulio Tremonti esercitava in alcuni analisi del lontano 1996. 

Che fare? A inizio anno è arrivata la notizia del sequestro nel Nord della Francia di due dirigenti della Goodyear da parte dei lavoratori che volevano ricevere assicurazioni sul loro futuro, ma gli atti estremi sono solo la dimostrazione rabbiosa di un’impotenza tragica, come ricordano bene gli ex lavoratori di Cisterna di Latina, alle porte di Roma, chiamati a competere, qualche anno addietro, senza successo, con la produttività dei loro “colleghi” francesi e polacchi.

In questo smarrimento, la Confindustria di Pordenone ha elaborato un progetto di politica industriale che ha visto il concorso di esponenti di diversa estrazione politica, come lo stesso Castro, l’ex ministro del lavoro di Romano Prodi, Tiziano Treu, Innocenzo Cipolletta e Riccardo Illy. In buona parte la necessaria riduzione della retribuzione avverrebbe tramite il riconoscimento di prestazioni di fatto come la estensione delle spese mediche e quelle per gli studi dei figli, i buoni pasto, l’assistenza agli anziani, il costo dei trasporti pubblici e così via.

Ma il recupero della produttività, che dovrebbe rendere appetibile l’arrivo di nuovi capitali da investire, passerebbe comunque dalla necessità di rimuovere alcune “rigidità” del contratto collettivo nazionale, come la gestione univoca dell’orario di lavoro, compresa la sua riduzione strutturale e il regime delle pause, l’assegnazione flessibile a mansioni inferiori e così via. È richiesto inoltre un forte partenariato con il sindacato e gli enti locali per attivare i processi di ricollocazione del personale in esubero.

Insomma, una ricetta che assomiglia a quella proposta da Marchionne per gli stabilimenti Fiat dalla vertenza di Pomigliano in poi, con l’aggiunta di una significativa partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori non solo al patrimonio azionario delle società, ma anche nel consiglio di sorveglianza delle stesse (l’organo che determina la linea gestionale dell’impresa, ndr). Con queste premesse, aggiunge Maurizio Castro, è possibile riprendere seriamente il discorso con la famiglia Wallemberg, azionista principale del colosso Electrolux, che ha già mostrato di intervenire in maniera efficace nel 1984 quando ha salvato la Zanussi abbandonata dagli azionisti italiani.

Nella proposta delle possibili prospettive industriali resta, tuttavia, un mistero che va oltre le operose terre friulane. Cosa è cambiato davvero dalle osservazioni che nel 2006 l’allora amministratore della Fiat, Sergio Marchionne, esternò all’Unindustria di Torino? Il manager italo-canadese giunse ad affermare che «il costo del lavoro rappresenta il 7-8 per cento e dunque è inutile picchiare su chi sta alla linea di montaggio pensando di risolvere i problemi». Il vero problema riguarda le attese della finanza, tanto da citare la percezione riferita dall’allora amministratore delegato della Renault, Carlos Ghosn: «Ho avuto la sensazione che i mercati finanziari cercassero avidamente lo spargimento di sangue nell’azienda».

Non ci saranno altre leve più urgenti e decisive della riduzione del salario per agire e operare un piano per il lavoro di lungo termine? Il documento del Centro studi di Confindustria emesso il 31 gennaio è molto interessante nel denunciare non tanto la carenza quanto la mancanza assoluta di una vera politica industriale che ha bisogno dell’intervento pubblico per essere credibile.

Intanto, la corrispondente di Città Nuova dal Nord-est ha ripreso la battuta emblematica di un operaio dipendente dall’Electrolux: «È un'impresa privata e, naturalmente, ci piaccia o no, cerca il massimo dell’utile». Come conferma la più recente indagine di Ilvo Diamanti: «Il declino del ceto medio lascia un Paese senza sogni, incapace di sognare. Dove le distanze sociali hanno ripreso a crescere, mentre il territorio affonda nelle nebbie. Soprattutto il Nord-est». Ma il discorso non può fermarsi a questa analisi. 

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