Dostoevskij profeta e mistico

La casa-museo a Mosca dove nacque e trascorse la prima giovinezza lo scrittore che più di altri ha indagato il mistero dell’uomo. Un fondamentale saggio di Divo Barsotti

 

«Fëdor Dostoevskij – scriveva Mario Vargas Llosa – visse in tante case e in tanti luoghi diversi – non si fermò mai per più di tre anni nello stesso posto – ed ebbe sempre l’ossessione di avere appartamenti ad angolo, con le finestre affacciate sulle due strade e vicino a una chiesa, in modo da poter ascoltare le campane, una musica che acquietava il suo spirito». Significativo questo particolare della casa con doppia visuale: a me dice l’attitudine di questo straordinario scrutatore degli abissi umani ad abbracciare con lo sguardo più gente, più umanità possibile.

Anche se gran parte della vita egli la trascorse a San Pietroburgo, dove l’ultima abitazione (nella quale anche morì nel 1881) è stata trasformata in museo, non va dimenticato che Dostoevskij nacque a Mosca, in un alloggio di servizio dell’ospedale Mariinskij presso il quale lavorava suo padre Michail Andreevich, anch’esso ora casa-museo grazie agli oggetti messi a disposizione dalla vedova dello scrittore e da altri.

Nella Russia pre-rivoluzionaria il Mariinskij era l’ospedale dei poveri, voluto dalla vedova dello zar Paolo I: un edificio neoclassico costruito nel 1806 su progetto di Giacomo Quarenghi, l’architetto italiano che realizzò una stupefacente quantità di opere a San Pietroburgo. In quell’appartamento di sole due stanze, anticamera e cucina Fëdor trascorse i primi sedici anni della sua vita imparando, attraverso i malati e le loro storie di emarginazione, la compassione verso i tanti “umiliati e offesi” trasferiti poi nei suoi romanzi.

Le descrizioni del fratello minore hanno permesso di ricostruire con i loro arredi alcuni ambienti: la sala da pranzo o “da lavoro” color canarino dove l’intera famiglia composta dai genitori e da sette bambini si riuniva per consumare i pasti. Qui, la sera, i più piccoli si appassionavano alle fiabe narrate dalla loro njanja Alena Frolovna, considerata un membro della famiglia, col risultato che già a tre anni Fëdor cercava di comporre storie intricate e paurose. Sopra un tavolo in stile “lombardo” è aperta una Bibbia le cui storie la madre Maria Fedorovna, prima insegnante dei suoi figli, leggeva loro.

Nella stessa sala, divisa da un semplice tramezzo di legno, era la cameretta dove Fëdor e il fratello Michail avevano i letti, in realtà due bauli. Nell’attiguo salotto color blu cobalto in stile “impero”, fornito di divano e libreria, la famiglia si riuniva dopo cena attorno ad un piccolo tavolo ovale per le letture serali ad alta voce, alle quali talvolta prendeva parte anche il severo padre quando non doveva attardarsi a descrivere patologie e a prescrivere farmaci. Non manca una chitarra: con essa la madre, insieme al fratello scapolo quando c’era, animava certe serate musicali eseguendo canzoni e romanze russe.

E poi foto di famiglia, giocattoli, oggetti d’uso quotidiano, la scrivania proveniente da San Pietroburgo dove Dostoevskij scrisse il suo capolavoro incompiuto, I fratelli Karamazov, con la penna, il calamaio, i suoi occhiali. Tutto un mondo intimo che lasciò tracce indelebili nella personalità del romanziere e dà un’idea della sua quotidianità nella prima giovinezza.

Aiuta invece a penetrarne l’animo un saggio di Divo Barsotti già apparso nel 1996 e ora riproposto dalla San Paolo: Dostoevskij, la passione per Cristo. Al principio di questo distillato delle riflessioni di una vita sul suo autore prediletto, Barsotti si chiede quale peso e valore possa avere un suo intervento nella sterminata bibliografia di Dostoevskij. “Modesto”, infatti, definisce il suo intento: assolvere un debito nei confronti di colui dal quale, nella propria presunzione e superficialità di giovanissimo, gli venne la spinta decisiva per la conversione a Dio e al Vangelo.

«La lettura di Dostoevskij – dichiara – mi insegnò che per essere un grande scrittore era necessaria una grande esperienza e non si può parlare di esperienza per chi non ha incontrato Dio o almeno non ha conosciuto il vuoto della sua assenza. L’opera di Dostoevskij è stata per me un messaggio e mi ha svegliato dal sonno. Non mi avrebbe svegliato e oggi non mi interesserebbe più, se Dostoevskij fosse stato per me solo uno scrittore. Invece la sua opera mi parla e mi nutre ancora».

Non solo semplicemente scrittore, sia pure grande. Cosa dunque? Continua Barsotti: «Egli è un profeta. Per lui mi ha parlato Dio. L’ho riconosciuto nel tormento di Raskol’nikov dopo il delitto; nella pietà e nella forza di Sonja. Mi ha disturbato ne L’idiota la figura del principe perché mi sembrava voler sostituire il Cristo; ma l’ho amato nell’umiltà e nella dolcezza di Sonja de L’adolescente, nella luminosa bellezza di Makar, l’ho sentito presente nell’umiltà di Tichon ma anche nell’orrore della morte di Kirillov e nella condanna di Stavrògin, finalmente l’ho veduto nello staretz Zosima e in Aljòša. Sempre Dio era presente. La sua presenza dava un nome a ogni uomo. Il silenzio non era vuoto, era il silenzio di Dio che riempiva di sé ogni luogo, ogni avvenimento, era la vita nella comunione con lui, era la morte nella volontà di rifiutarlo, di volerlo negare».

Profeta è per lui Dostoeveskij, perché annuncia la necessità della redenzione di Cristo in un mondo di fragilità e di peccato, anticipando la crisi di una società che pretende di fare a meno di Dio; e anche mistico per l’amore appassionato verso il Salvatore e per il suo vedere oltre le alienazioni dell’animo umano «una realtà più segreta e più vera», una possibilità insperata di corrispondere al disegno divino.

Solo un mistico può capire un altro mistico, perché solo l’amore (divino) è vera conoscenza. E Barsotti, che oltre ad essere scrittore, è stato monaco, sacerdote e fondatore della Comunità dei Figli di Dio, mistico lo era pure. Per questo nel suo libro dove esamina punto per punto i cinque romanzi capolavoro di Dostoevskij, i personaggi, e li confronta tra loro illuminandoli a vicenda per poi trarre le proprie conclusioni riguardo al messaggio lasciato dallo scrittore e al suo cristianesimo, Barsotti raggiunge profondità che costituiscono un fondamentale apporto agli studi senza numero dedicati al genio russo.

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