Donne e diritti

La legge italiana che tutela la maternità resta all'avanguardia, ma solo per le donne che hanno un lavoro a tempo indeterminato. Servono norme per le precarie e per aiutare i padri ad assumersi le proprie responsabilità

«Sono stato anch'io uno dei tanti che alla nascita di un figlio non aveva voluto saperne di restare a casa almeno per un po'. Ero il segretartio del partito liberale e pensavo di essere indispensabile. Solo in seguito mi ero accorto che per qualunque lavoro si può trovare un sostituto, salvo che per quello di padre». In un intervista rilasciata a Chiara Valentini, così diceva Bengt Westerberg, il ministro per gli affari sociali svedese che era riuscito a far approvare, nonostante la crisi, il "mese del papà": un congedo lungo un mese riservato, dopo la nascita di un figlio, solo al padre. Un modo per "costringere" l'uomo a restare a casa per non perdere quei trenta giorni retribuiti da dedicare alla cura del piccolo.

Un'idea divenuta realtà e subito copiata da altri Stati illuminati sul fronte delle politiche sociali, a partire dalla Norvegia. Dal Nord Europa alla vicina Francia, la situazione cambia poco. Oltralpe le tutele per le famiglie, dai congedi ai sussidi, non si contano e non si tratta di eventi sporadici: accompagnano, invece, la famiglia durante tutta l'infanzia dei (tanti) bambini.

E in Italia? Il problema, ha spiegato il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, nel corso del convegno "Figli o lavoro. La maternità negata", non è la legislazione vigente nel nostro Paese perché davvero tutela la maternità. Il problema è che è stata studiata per donne che avevano un lavoro fisso e a tempo pieno. Di questi tempi, una specie di utopia. Sempre più spesso, infatti, le donne sono precarie o in cerca di lavoro. Ecco perché, sottolinea Camusso, «politiche di lavoro uguali per soggetti diversi creano soltanto disuguaglianza».

Il mercato del lavoro, attualmente, dovrebbe essere suddiviso in tre parti. C'è il lavoro che consente di vivere; quello povero, caratterizzato da disuguaglianze di trattamento e di salario, che è quello nel quale sono maggiormente inserite le donne. Infine, c'è il mondo della precarietà, nel quale galleggiano giovani donne soprattutto del Sud Italia, chiedendosi se entreranno mai a far parte del mercato del lavoro vero e proprio.

Ma allora cosa fare? Innanzi tutto, per il segretario Cgil, è arrivato il momento di lavorare sui servizi alla famiglia. Non ci si riferisce, in questo caso, soltanto a quelli per la prima infanzia e per il sostegno alla maternità, ma a tutti quelli relativi alla cura della persona, che riguardano anche l'accudimento degli anziani e dei malati, che purtroppo molto spesso vengono ritenuti compiti "naturali" della donna, dunque da non retribuire né riconoscere o, al massimo, da pagare poco e male. Si tratta, invece, di un mondo sommerso enorme che, se riconosciuto adeguatamente, potrebbe dar vita a nuovi posti di lavoro e comportare una nuova presa di coscienza del lavoro femminile. 

Il rischio, altrimenti, è il persistere di nuove forme di segregazione femminile. «Intendiamoci bene – afferma Camusso – nel mercato del lavoro italiano il lavoro femminile è sempre stato segregato. Oggi, però, non si tratta più delle operaie che hanno il contratto tessile e non riescono ad ottenere quello metalmeccanico. Oggi c'è un  nuovo mercato, quello della cura della persona, in ampia parte irregolare e sommerso, produttore di lavoro povero, appannaggio delle donne o degli immigrati».

Anche le politiche dei congedi non sono sufficienti perché sono pensate sulla donna e non sull'uomo, che viene considerato solo in maniera simbolica. Inoltre, la tutela è finalizzata a tenere la donna per il maggior tempo possibile a casa, invece di cercare di far conciliare meglio lavoro e famiglia. Sui posti di lavoro, inoltre, la maternità sta tornando ad essere considerata un costo insostenibile, che non deve pesare sull'azienda, ma esclusivamente sulla famiglia. Paradossalmente, invece di progredire, si arretra.

Eppure, aggiunge Camusso, la maternità va sempre tutelata perché è un bene comune. Un Paese deve difendere la sua natalità. «Le donne della mia generazione – conclude la sindacalista – hanno rischiato, hanno fatto figli anche se erano precarie. Perché oggi non è più così? L'unica risposta che ho trovato è che noi, in passato, cominciavamo con un lavoro precario, ma eravamo sicure che a 25, 28 al massimo a 35 anni avremmo avuto un lavoro stabile. Oggi invece non si riesce a vedere la stabilità. Fare figli significa scommettere sul futuro. Se non si riesce a vedere un futuro, diventa difficilissimo scommettere su qualcun altro. E non è un problema di posto fisso, ma di stabilità del reddito, di legare meritocrazia e produttività piuttosto che meritocrazia e fedeltà a un ruolo» predefinito.

Ecco che allora diventa fondamentale per le donne cercare di ritagliarsi spazi sempre più adeguati, mentre i governi e i legislatori devono creare le condizioni affinché si guardi al domani con più speranza, riuscendo ancora a scommettere sul futuro e sulle nuove generazioni, scegliendo la vita e non la rassegnazione.

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