Don Beccari e gli altri giusti

Nel racconto di Martin Gilbert un intero capitolo del suo libro è dedicato agli italiani e alle gerarchie vaticane che salvarono da morte certa gli ebrei. Ne pubblichiamo un breve estratto
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«In tutti i miei anni di confino in vari campi durante gli anni di guerra in Italia – scrisse il dottor Salim Diamand – non ho mai trovato razzismo negli italiani. Naturalmente esisteva il militarismo; ma per tutti gli anni di guerra non ho mai trovato alcun italiano che mi si avvicinasse con l’idea di sterminare la mia razza». Prima dell’occupazione tedesca dell’Italia centrale e settentrionale nell’autunno del 1943, gli ebrei italiani, e i rifugiati ebrei che si erano spinti in Italia dalle aree dominate dai tedeschi sin dal 1933, erano al sicuro dalla deportazione. Il regime fascista italiano di Mussolini aveva introdotto delle leggi antiebraiche prima della guerra, limitando le professioni che gli ebrei potevano praticare; ma non cercava la loro morte, oppure cooperava con la Germania, il suo partner dell’Asse, nel farli oggetto di demonizzazione e nel segregarli.

Il 18 luglio 1942, nel villaggio di Nonantola, nell’Italia del nord, don Arrigo Beccari, un prete del locale seminario, fu testimone dell’arrivo di 74 bambini ebrei insieme con i loro assistenti adulti: 43 erano figli di ebrei tedeschi, austriaci e polacchi, i cui genitori erano stati già deportati e uccisi.

Insieme con 18 ragazze ebree che erano fuggite dall’Austria alla Slovenia, e altri 13 bambini jugoslavi di origine ebraica, erano stati condotti da un ebreo di Zagabria, Josef Indig, dalla Croazia nella regione della Jugoslavia occupata dagli italiani, e da lì in Italia.

Vedendo i bambini nel suo villaggio, padre Beccari persuase le autorità locali a farli sistemare in una grande casa vuota, Villa Emma. Lì impararono a fabbricare i loro mobili e lavorarono i campi, in preparazione alla vita del kibbutz in Palestina verso il quale si erano messi in viaggio allo scoppio della guerra. Potevano solo presumere quale fosse stato il destino dei loro genitori. Cartoline che alcuni parenti cercarono di inviare alle loro cittadine natali in Polonia, dicevano semplicemente che erano dovuti andare via.

[…]

Nel remoto villaggio di Canale d’Alba, in Piemonte, Matteo Raimondo, un «robusto fattore», sua moglie Marietta, suo figlio Beppe e sua figlia Juccia protessero cinque ebrei italiani provenienti da Genova: Giuseppe Levi, sua moglie Bettina e i loro tre bambini, Ida, Elia, e Pia. Il tradimento era sempre un pericolo, poiché i tedeschi offrivano ricompense a coloro che avrebbero denunciato gli ebrei in clandestinità.

«Tutti nel villaggio sapevano che eravamo ebrei – scrive Elia Levi, che allora aveva dieci anni -. Il nostro destino si sarebbe concluso e saremmo apparsi come poche righe nel Libro della Memoria». Una sera, alla fine del settembre del 1943, Beppe Raimondo, il figlio più grande di Matteo, «un forte cristiano nei suoi primi venti anni», disse alla famiglia Levi di tenersi «pronta per la mattina dopo, sul presto, e con il minimo di bagaglio: egli aveva pensato ad ogni cosa, dove portarci e come. Avevano intuito che da soli non saremmo riusciti a trovare una via d’uscita, e decisero che non potevamo oziosamente attendere che la nostra fine si compisse. Nel loro animo era un peccato che fossimo così incapaci e inerti di provvedere a noi stessi in quei pericolosi momenti: perciò decisero di agire per puro altruismo e non senza un reale pericolo per loro stessi. Beppe si era assicurato l’aiuto di un amico con una piccola auto e ci portò all’orfanatrofio di suo zio in un villaggio molto piccolo non molto lontano, ma dove nessuno, si sperava, sapeva che eravamo ebrei. Nel frattempo i fascisti erano venuti nella loro casa, perlomeno una volta, alla ricerca di ebrei da deportare: la famiglia di Raimondo disse loro che non sapevano nulla sulla nostra esistenza. Rimanemmo, sotto falso nome, nella parrocchia dello zio prete per alcuni mesi finché Beppe decise che il posto non era sicuro e così ci trasferimmo in una fattoria solitaria che apparteneva a uno dei cugini, ancora in un raggio di una decina di chilometri. Sentivamo che la famiglia di Raimondo ci stava proteggendo: Juccia era solita venire da noi di tanto in tanto, viaggiando sulla sua bicicletta, per portarci denaro e notizie. Rimanemmo lì e in quella zona, con una buona dose di fortuna, fino alla fine dell’aprile del 1945, quando, dopo la fine della guerra e la caduta della Germania nazista, potemmo finalmente far ritorno prima a Canale e poi a Genova».

Da Martin Gilbert, I giusti, gli eroi sconosciuti dell’Olocausto, Città Nuova (pp. 512, € 28,00). Per acquistare il volume clicca qui.

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