Disoccupazione e urgenze sociali

Le anomalie generate dalla crisi: giovani senza lavoro e servizi di pubblica utilità fermi perche senza finanziamenti o retribuzione. Combattiamole se non per amore almeno per interesse
disoccupazione

Pensando ai tanti disoccupati, giovani e meno giovani, che popolano le nostre società europee (e non solo quelle), non vi inviterò a focalizzarvi sulle loro storie individuali, sui genitori per cui la perdita del lavoro significa lasciare la casa da poco comperata perché non riescono più a pagare il mutuo, insieme a tanta umiliazione e frustrazione. Non focalizziamoci neanche ai progetti di vita tarpati di troppi giovani, ridottisi a passare il tempo tra il muretto della piazza con altri sfaccendati, qualche lavoretto rigorosamente in nero e a breve scadenza, e poi tante ore a chattare sui social network (il tutto magari dopo grandi sforzi da parte loro e delle loro famiglie per ottenere un titolo di studio che li preparasse a svolgere un ruolo utile e socialmente riconosciuto). No, no, non stiamo a fare questi discorsi da gente dal cuore tenero. Qui vogliamo parlare di economia, e di quella dura.

 

Prima di tutto un po’ di dati. Parliamo di oltre 23 milioni e mezzo nei 27 paesi dell’Unione Europea, di quasi 16 milioni e mezzo nell’area euro, di oltre due milioni e 100 mila in Italia (dati aggiornati al novembre 2011). Ma il problema è più grave di così. Da una recente rilevazione dell’Istat risulta che il numero di  “lavoratori scoraggiati”, che pur non lavorando hanno rinunciato a cercare un’occupazione, supera il milione e mezzo (nel 2004 erano un milione). E poi ci sono le centinaia di migliaia di lavoratori in cassa integrazione straordinaria, che per convenzione non figurano tra i disoccupati, dato che formalmente hanno ancora un rapporto di lavoro con l’impresa, ma che in realtà in gran parte il posto di lavoro non ce l’hanno più.

 

In questa grande massa di lavoratori inutilizzati l’economia vede, per loro, una grande perdita di reddito e di consumi, e per il sistema economico una grande perdita di PIL, di beni prodotti. Insomma, un grande spreco. Ma come se ne esce? La risposta non è immediata, perché i sistemi economici in cui viviamo sono complicati.

Ve l’immaginate una famiglia agricola patriarcale, come quelle di una volta, in cui gli adulti stiano lì a lamentarsi che c’è urgenza di spalare la terra che intasa i canali di irrigazione o che si dovrebbero raccogliere le castagne nei boschi, concludendo con un: «che ci volete fare? non ci sono le risorse». E tutto questo mentre i loro ragazzi passano intere giornate a bighellonare, perché nessuno dà loro niente da fare.

 

Non so voi, ma io una situazione così non riesco ad immaginarmela. E non solo perché a quei tempi l’autorità in famiglia pesava, ma soprattutto perché in un microsistema economico autosufficiente come quello, è evidente che le risorse della collettività sono le braccia e le teste dei suoi membri, non qualche biglietto di carta filigranata, né tantomeno qualche cifra nelle scritture contabili delle banche (chi ne ha mai vista una?). Quei ragazzi sfaccendati, con l’aggiunta di qualche rudimentale badile o di qualche cestino, sono loro le risorse necessarie, e state sicuri che in una famiglia patriarcale come si deve alle fine i canali sarebbero stati ben puliti e le castagne accuratamente immagazzinate.

 

Anche nelle nostre società ci sono torrenti a cui fare la manutenzione, come ci ricordano le recenti tragedie della Liguria, insieme a tantissime altre cose che sarebbe importante fare, a cominciare da un grande piano di risparmio energetico e di riconversione alle energie rinnovabili. «Sarebbe bello, ma non ce lo possiamo permettere», questo in sintesi l’argomento ricorrente nelle sale del recente summit di Durban sull’ambiente – un summit che è stato un mezzo fallimento, a detta degli osservatori. E lo stesso vale per tanti beni privati, come case da risistemare o servizi di custodia e animazione per bambini e anziani: «sarebbe bello, ma non si può». Intanto milioni di lavoratori, insieme a grandi quantità di macchinari e di fabbriche, sono là, inattivi.  

 

Il fatto è che oggi non basta un ordine del capofamiglia per trasformare la capacità di lavoro in beni prodotti. Soprattutto quando l’equivalente moderno del capofamiglia, il governo con l’amministrazione pubblica, è già troppo indebitato. In un sistema grande come una nazione (anzi, molto di più) i disoccupati non mangiano comunque alla mensa comune , come i ragazzi della famiglia patriarcale. Chi voglia metterli al lavoro deve pagar loro uno stipendio e per farlo deve avere dei capitali finanziari, che dovrà restituire, o comunque far fruttare. E se non si vedono buone prospettive di ricavi, come in questo momento di particolare pessimismo, chi dovrebbe prendere l’iniziativa ci pensa due volte. Quei pochi, poi, che sarebbero comunque pronti a muoversi devono scontrarsi con la riluttanza delle banche a concedere finanziamenti, perché in questo momento si trovano troppo esposte.

 

Se aggiungiamo il fatto che, oltre alla pubblica amministrazione e alle imprese, anche le famiglie tagliano o rinviano le loro spese – con questi chiari di luna meglio essere prudenti -, ci rendiamo conto che il contatto tra i due poli, quello dei bisogni e quello dei fattori della produzione che sarebbero potenzialmente in grado di soddisfarli, non riesce ad avvenire. Così troppi lavoratori restano disoccupati e molti bisogni pubblici e privati restano insoddisfatti. Una situazione che – mi si permetta di inserire un po’ di politica in mezzo all’economia – difficilmente le nostre società riescono a sopportare senza lasciarsi tentare da qualche scorciatoria: rigurgiti di nazionalismo, raid contro gli immigrati, o rivolte di piazza. 

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