Concertazione e convergenza

Queste le linee guida del neopresidente uruguayano José Mujica, recentemente insediato, che ha già posto i semi di una promettente collaborazione con l'opposizione.
mujica

«Un modello per il mondo intero». La frase è di Hillary Rodham Clinton. A prima vista può apparire come una deferenza per l’occasione. Ma non dev’essere stata da poco la sorpresa di vedersi accolta, oltre che da José Mujica, colui che poche ore dopo sarebbe divenuto il trentottesimo presidente della Repubblica Orientale dell’Uruguay (nome ufficiale della nazione), anche dai leader dei quattro partiti rappresentati in Parlamento.

 

Tanti segnali fanno capire che il quadretto con la Clinton non è solo una bella foto ricordo. Pochi mesi fa, all’inaugurazione del nuovo aeroporto – un hub strategico per il posizionamento del Paese nella regione, un progetto a suo tempo fortemente attaccato dal Frente Amplio, allora all’opposizione, che ora al governo l’ha inaugurato – il presidente Vázquez ha invitato il suo predecessore, Jorge Batlle (Partito Colorado), iniziatore del progetto, a tagliare il nastro insieme a lui. Tempo dopo si è potuto vedere a Punta del Este (la Montecarlo sudamericana) tutto lo spettro politico e sindacale, insieme, in un incontro con cinquecento imprenditori stranieri, potenziali investitori. Ma soprattutto, quattro commissioni multipartitiche studiano, sin dal giorno della vittoria elettorale di Mujica, possibili vie verso politiche di Stato nelle aree dell’educazione, energia, sicurezza e ambiente. E non è solo poesia: il primo dossier, quello sull’energia, è pronto per entrare in Parlamento, con la proposta di promuovere l’energia atomica, finora bloccata per legge. Una prova che anche l’opposizione ha avuto la lungimiranza di stare al gioco.

 

 

Un paese atipico

 

Nel movimentato e spesso violento scenario sudamericano, l’Uruguay è una mosca bianca. Nel dna del popolo c’è da sempre il gusto per il confronto delle idee, il rispetto del valore dell’opinione dell’altro, della sua dignità e unicità. Qui, come ha ricordato Mujica, «un presidente può camminare per strada o andare in auto senza problemi», parlare con la gente da vicino.

 

La democrazia di questo piccolo e periferico paese, incastonato tra i giganteschi Brasile e Argentina, già tra le più antiche, solide, mature e stabili del mondo, è oggi in smagliante forma. E può essere guardata davvero con ammirazione da tanti Paesi. Una prova ne è l’energico rifiuto al colpo di Stato del 1973, manifestato per le strade dal popolo e in Parlamento da coraggiosi politici di tutti i partiti (che poi hanno dovuto andare in esilio per evitare il carcere). Prova ne è la resistenza pacifica che ne è seguita, ed anche la maniera di uscire dal dramma: la situazione era così insostenibile che la giunta militare dovette proporre un referendum di riforma costituzionale per cercare di legittimarsi al potere. La gente aveva paura, e non si poteva far campagna per il no – si azionava il tergicristallo come segno di “no”- mentre i media ufficiali la facevano per il si. Ma vinse il no e tornò la democrazia, con festa grande per le strade del Paese.

 

La guerriglia, si diceva. Anche in questo caso, la gente condannò da subito un movimento utopico che, figlio dell’ingiustizia sociale, del latifondo, della rabbia verso l’oligarchia e lanciato dall’entusiasmo della rivoluzione cubana, era stato gelato dalle stesse parole di Che Guevara nella prestigiosa sede dell’aula magna dell’Università della Repubblica: «Ho l’ardore di dire che conosco il continente americano, di cui ho visitato in un modo o nell’altro ogni Paese, e posso assicurarvi che, nelle condizioni attuali, non c’è un paese dove, come in Uruguay, si permetta la manifestazione delle idee. […] Voi avete una cosa da tenervi stretta: […] la possibilità di avanzare per la via democratica fino a dove si può, di creare quelle condizioni che tutti speriamo che un giorno si ottengano per tutta l’America, perché possiamo essere tutti fratelli e non vi sia sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo […] senza spargere sangue. Poiché quando comincia il primo sparo, non si sa quando sarà l’ultimo».

 

Ma la violenza scoppiò ugualmente. In questo contesto, nelle file della ribellione tupamara e dalle fila dello storico Partido Nacional, crebbe políticamente Josè Alberto Mujica Cordano. In poco tempo divenne in comandante di una colonna, e non ammazzò né fu ammazzato per puro caso.

Dopo varie reclusioni e fughe, passò tredici anni in stretto e disumano isolamento, descritto poi con altri compagni nel libro Memorie della tana.

 

Ma alla fine della prigionia Mujica, cosí come il fondatore della coalizione di governo che lo portò poi alla massima carica dello Stato, l’amatissimo generale Seregni e Wilson Ferreira Aldunate – un altro statista di statura nobilissima e altrettanto amato dalla gente e stimato da compagni e avversari – richiamò la folla pronta alla vendetta alla riconciliazione e al perdono. Qualcuno, in questi giorni, l’ha paragonato a Mandela per questo.

 

Ma come si spiega l’ascesa di Mujica? Nella sua maturazione personale, nel suo studio in carcere (anche questo, come Mandela) della realtà e del “nemico”, nella sua lettura di ciò che è successo al Paese, al continente e a lui stesso, e nella sua autocritica, che l’ha trasformato in un difensore della democrazia.

 

«Qual è la ricetta per tenere insieme la sinistra?» Ha chiesto una giornalista italiana al neopresidente. Per rispondere a questa domanda, Mujica ha evocato la tradizione repubblicana e democratica del Paese, forte di due partiti quasi bicentenari, che hanno governato, alternandosi, sino al 2005. «Sono stati loro stessi coalizioni di fatto», riuscendo a tenere insieme tendenze praticamente opposte e personalità carismatiche. Certo nella storia non sono mancate lotte fratricide: ma come “el Pepe” (così gente chiama familiarmente Mujica) ha ricordato e ammesso, applicandolo anche al suo partito e a sé stesso, «abbiamo imparato dagli errori». Il Frente Amplio, infatti (coalizione di sinistra al governo) «ha per base ideologica – nelle parole di Mujica – il regolamento che permette il funzionamento di una coalizione di 17 gruppi che vanno dai comunisti leninisti a quelli di ispirazione trozkista, dai democristiani ai socialisti, passando per movimenti socialdemocratici, la rappresentazione delle basi».

 

Gli scenari che avrà di fronte Mujica sono ovviamente complessi. L’economia dovrà consolidare il ritmo di crescita salariale di questi anni (+ 30 per cento in termini reali in questo primo governo di sinistra della storia), conciliandolo con il miglioramento della competitività internazionale, diminuita ultimamente a causa del cambio rispetto a dollaro ed euro. Nei primi due anni, poi, il nuovo governo dovrà giocoforza essere oculato nella spesa, vista la difficile situazione fiscale (si è speso molto, con successo nel caso della creazione di impiego, e con insuccesso in quanto a standard educativi, preoccupantemente in picchiata).

 

Nei discorsi ufficiali e soprattutto in quello al Parlamento, di fronte alle numerose delegazioni straniere che includevano tutti gli Stati sudamericani, vari Paesi europei e gli Usa, il neopresidente ha dimostrato in modo deciso il suo essere uno statista. L’ex guerrigliero, il contadino spettinato che sbaglia i congiuntivi e che fu scambiato per un intruso al suo arrivo in vespa nel primo giorno da senatore, sa cosa deve fare un presidente per rappresentare la nazione.

 

Non è mancato il realismo, come quando ha ricordato che in un giorni come questo, in cui gli uruguayani si vantano di applicare le leggi, tanti dettami costituzionali come quelli circa l’effettiva uguaglianza – una delle caratteristiche più salienti della cultura e della vita nazionale – sono lontane dall’essere davvero realtà. Anche nel Paese più avanzato del continente in questo campo.

«Mi piacerebbe credere che questa sia la sessione inaugurale di un governo di 30 anni. Non mio, e neppure del Frente Amplio, bensì di un sistema di partiti che sia così saggio e potente da attraversare i diversi periodi di governo facendo passare intoccate le grandi linee strategiche su temi come la salute, la sicurezza, l’energia. E questa non è una riflessione per i posteri: è una formale dichiarazione di intenzioni» ha assicurato il presidente.

 

Nel ribadire che «concertazione e convergenza» sono metodi più appropriati di un confronto da perenne campagna elettorale, Mujica ha invitato tutti (in primo luogo intransigenti del suo partito, secondo alcuni) a negoziare, cosa che implica «perdere qualcosa di quello che si vorrebbe» per ottenere un bene maggiore. «Solo al Pepe possiamo concedere di negoziare con blancos e colorados» si legge in un emblematico sms, giunto nella redazione di un prestigioso programma radiofonico. Anche questo spiega il carisma di Mujica.

 

Il nuovo presidente ha dimostrato umiltà e realismo in molte occasioni, raccogliendo approvazione da più parti. Mujica ha sottolineato ciò che tanto il governo quanto l’opposizione hanno imparato: che governare non è semplice, che nessuno è immune dalla corruzione, e che, come ha commentato dopo di lui un leader dell’opposizione, «insieme è più facile». Mujica ha anche ricordato i diversi ruoli di governo e opposizione, a cui ha chiesto di controllare il suo operato. E in quanto all’economia, ha affermato: «Saremo ortodossi in macroeconomia […] ed eterodossi ed innovatori in altri aspetti», come nell’impulso al cooperativismo e all’investimento produttivo, disincoraggiando quello speculativo. E poi, un gran cavallo di battaglia: riformare la pesante e obsoleta macchina statale. Ma farlo «insieme ai funzionari pubblici, non contro di loro». Una bella gatta da pelare, ma una chance che, se ben giocata, con i giusti alleati, può portare grandi vantaggi.

 

 

L’integrazione regionale e questione sociale

 

Nella conferenza stampa ai giornalisti stranieri, Mujica ebbe a dire che «il Mercosur sta fallendo perché i sudamericani non ci stanno mettendo la testa», e mise in risalto l’urgenza che il Brasile, principale Paese e leader naturale della regione, eserciti un ruolo guida più deciso.

 

Naturalmente, il tema della povertà non è stato assente dai discorsi. Su questo terreno Mujica si impegna a «spazzar via l’indigenza e ad abbassare la povertà al 50 per cento». Per far questo punta alla creazione di impiego tramite investimenti privati e misti, e a portare l’istruzione universitaria, specie tecnologica, all’interno del Paese.

 

Mujica ha concluso il suo discorso segnalando i difetti uruguayani – tra cui l’egualitarismo che appiana verso il basso è forse il più dannoso – e invitando al popolo a cambiare insieme. «Popolo caro: il tuo progresso verrà dal lavoro, dall’impegno, dalla scienza, dalla serietà, dall’alzarsi ogni mattina. Sconfitti sono coloro che abbandonano la lotta».

I più letti della settimana

Tonino Bello, la guerra e noi

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons