Chirurgia plastica e ricostruttiva, tra limiti ed opportunità

La ricerca della bellezza è un obiettivo ambito da moltissime persone, perché si crede che offra maggiori chance di successo. Ecco perché è sempre più necessario affidarsi a medici che svolgano la professione con profondo senso etico ed equilibrio, aiutando i pazienti a non esagerare nella ricerca della perfezione
I colori della moda

La chirurgia plastica nasce come chirurgia ricostruttiva. I primi casi di ricostruzioni corporee risalgono al sesto secolo avanti Cristo e le esigenze ricostruttive riguardavano prevalentemente il trattamento di lesioni mutilanti provocate da scontri durante i conflitti. I periodi bellici hanno sempre rappresentato un momento di grande crescita per la medicina e la chirurgia in generale. Nel secondo conflitto mondiale ad esempio sono state inventate tecniche che hanno consentito la ricostruzione anche di grossi difetti corporei mediante il trasferimento di tessuti dello stesso paziente da una parte all’altra del corpo.

Negli ultimi anni le tecniche ricostruttive si sono notevolmente affinate e oggi è possibile realizzare ricostruzioni morfologiche e funzionali di tutte le aree del corpo mediante il trasferimento di tessuti con una minima quantità di cicatrici e con risultati esteticamente molto buoni.

Molte persone sono convinte che la chirurgia plastica si occupi esclusivamente di estetica. Inserendo su un motore di ricerca la parola “chirurgia plastica” si trovano oltre un milione di siti internet e nelle prime dieci pagine ci sono solo siti relativi alla chirurgia estetica. È indubbio che l’attenzione generale per la chirurgia estetica è preponderante rispetto a quello per la chirurgia ricostruttiva: la ricerca della bellezza è un obiettivo ambito da moltissimi giovani e meno giovani. La percezione di molti è che se si è belli si hanno maggiori chance di successo. Gli ultimi avvenimenti di cronaca hanno dato l’impressione che l’essere anche solo belli e disponibili, senza altre capacità professionali, apre molte più porte di quante se ne possano aprire facendo ricorso esclusivamente alle competenze ed alle capacità personali.

Ecco perché è sempre più necessario affidarsi a medici che svolgano la professione con profondo senso etico ed equilibrio, aiutando i pazienti a non esagerare nella ricerca del bello, considerandolo un surrogato di qualche altra mancanza, magari presente anche a livello psicologico.

È innegabile che oggi, in campo medico, sia necessaria per prima la competenza tecnica nello svolgimento di una professione. Accanto a questa non possono mancare le competenze trasversali, ossia le capacità comunicative e relazionali in grado di curare il paziente prima di tutto come persona.

Prendersi cura del paziente significa velocizzare il processo di guarigione, motivare il paziente a riprendere una vita normale ed evitare eventuali azioni legali nei confronti del medico e dell’ospedale. È paradossale infatti che i pazienti che denunciano i medici non siano motivati tanto dall’essere stati curati male, ma dall’essere stati “maltrattati” dal punto di vista umano.

Secondo una ricerca pubblicata sull'Arch Intern Med già nel 1994, i medici che non sanno comunicare sono molto più frequentemente denunciati. Su 45 casi di medici denunciati per malpractice, molti avevano scarsa capacità di comunicazione e avevano ignorato il punto di vista del paziente (Beckman HB et al.). Secondo lo stesso studio, in caso di errori si è più disposti a perdonare il personale che si è reso disponibile per cercare di risolvere il problema causato dall’errore. La maggior parte delle denunce parte da conflitti interpersonali e non da un trattamento sbagliato (The Journal of the American Medical Association 1997).

I pazienti che si sentono trattati meglio sono più invogliati a collaborare, sono più soddisfatti del trattamento (anche se non è il migliore possibile), guariscono più velocemente, forniscono maggiori e migliori informazioni al medico. E anche se spesso il tempo per l'accoglienza adeguata del paziente sembra il maggior nemico del medico, il British Medical Journal faceva sapere già nel 2002 che il medico tende ad interrompere il paziente in media dopo 22 secondi. Il 90 per cento dei pazienti conclude spontaneamente il racconto entro 92 secondi e tutti entro 2 minuti. Tra i 22 secondi ed i 92 secondi viene menzionato il 75 per cento dei sintomi. Il 72 per cento dei medici interrompe i pazienti in media dopo 23 secondi. I pazienti che hanno avuto la possibilità di esprimere le loro preoccupazioni senza interruzioni hanno finito in media dopo solo 6 secondi (Marvel KM et al., Jama, 1999). Se a questo si aggiunge che una buona relazione medico-paziente è responsabile del recupero e dei tempi di recupero dello stato di salute del paziente, sembra ci siano ottime ragioni per orientarsi a questo comportamento.

(Nela foto, modelle pronte per una sfilata)

 

 

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