Che confusione su Dio

Credere: un'opinione o un atto onesto di ragione?

Ormai si moltiplicano i casi (quello di Eluana Englaro è solo uno) in cui appare evidente che l’opinione “laica”, massmediaticamente dominante, vuole stabilire a tutti i livelli e in tutte le sedi e istanze istituzionali che per lo Stato l’essere umano è un animale autodeterminato e basta. Ho letto persino, costatando l’involontaria comicità che pervade questa ideologia di morte, che l’Italia non deve diventare una provincia del Vaticano.

 

Ora, lasciamo stare tali rozzezze culturali e spirituali, e scendiamo alla radice del mar degli equivoci, diciamo nella Fossa delle Marianne del nichilismo, che fa dell’uomo un animale consumante-consumabile-consumato. Laggiù proprio in fondo, c’è il plurimillenario equivoco, da cui non è esente neppure, non la dottrina, ma il parlare quotidiano di tanti credenti, anche nel clero, che dice: o si crede o non si crede in Dio; la fede è un dono, c’è chi lo ha e chi no.

 

Prima di fissare l’attenzione su cosa significa credere, togliamo un primo equivoco: la fede è certamente un dono, ma che Dio fa a tutti, essendo per definizione “Datore di doni” (inno Veni, Sancte Spiritus); si tratta solo di accertare onestamente se si hanno le mani chiuse o aperte per riceverlo.

 

E ora affrontiamo il centro nevralgico degli equivoci. Che cosa significa credere? In italiano non abbiamo la sfumatura verbale necessaria; in ingle­se, ad esempio, sì: to think (credere=ritenere) non è to believe (credere= aver fede). Perciò in italiano diciamo con disinvoltura confusa: «Credo che pioverà» come «Credo in Dio». Ma credere, nel senso della fede, non signi­fica: “avere l’opinione che”, significa: affidarsi (persino le banche, che spesso non lo meritano, si chiamano istituti di credito!). Gesù, al cieco nato che ha appena guarito, dice: «Credi tu in me?», ed evidentemente non gli chiede se crede nella sua esistenza, dato che quello lo ha davanti a sé ve­dendolo con i suoi nuovissimi occhi; ma gli chiede di affidarsi a lui.

 

Ciò significa, continuando a ragionare correttamente, che al Dio di Gesù Cristo, o di Israele, o dell’Islam, ci si affida, o no, non per opinione ma per atto di fedeltà-fiducia. E significa, ecco il fondo del discorso, che nell’esistenza di Dio non si “crede” per opinione e neppure per fede, ma che la si afferma per un atto onesto di ragione. Che Dio esiste non me lo dice la mia contingente e mutevole opinione, me lo dice la mia immutabile razio­nalità, se non è distorta o inquinata; che sa bene – nella testa dell’analfabeta come in quella del super-dotto – che tutte le cose, e quindi anch’io, non sono prodotte da sé stesse o dal nulla.

 

Finché non supereremo questo mare di confusione tra piani diversi di conoscenza, che ci risucchia nel suo abisso vorticante come il Maelstrom di E.A. Poe, prenderemo fischi per fiaschi e lucciole per lanterne, ovvero non diremo pane al pane e vino al vino.

Ciò a sua volta significa e comporta che continueremo a chiacchierare su Dio come su un argomento (mi interessa, non m’interessa, mi piace, non mi piace), della fede come di un optional irrazionale e soggettivo, della re­ligione come di un facoltativo hobby, un po’ curioso e strano.

 

Diceva il saggio mio padre che la religione, se presa male (fuori o den­tro la Chiesa), è pericolosissima come un’arma mortale; perché genera da una parte ateismo, scetticismo, indifferenza e intolleranza, dall’altra clericalismo, irrazionalismo bigotto, fondamentalismo cieco e violento.

Come aveva ragione!

 

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