Bisogna riconciliare il paese

Continua l’esodo dei cristiani e cresce invece l’immigrazione eritrea dai confini ormai senza controllo. Il vescovo di Tripoli chiede di non usare la forza e di puntare al dialogo: «È tardi, ma è possibile»
Manifestanti in Libia

Sono giorni difficili a Tripoli e nel resto del Paese. Lo sono per il popolo. Lo sono per la Chiesa. Monsignor Giovanni Martinelli, vescovo della capitale, assiste impotente all’esodo della comunità cristiana e si prepara a celebrare l’ultima messa con la comunità filippina prima che una nave la porti via, come sta accadendo con i lavoratori egiziani e marocchini che abbandonano case e lavoro pur di aver salva la vita.

 

La conversazione telefonica, dopo giorni di tentativi, è disturbata. Monsignor Martinelli è sereno, pur nei disagi e nel silenzio tombale che regna nel suo quartiere: «un silenzio assoluto, che impressiona. Ogni tanto c’è una macchina, per il resto è come se la città fosse senza vita. Io non sento gli spari, ma vedo solo gente che parte».

 

Accanto a chi parte, c’è però chi arriva e sono gli eritrei che in massa si stanno riversando nella capitale, dato che i controlli al confine sono diventati sparuti poiché la Libia è letteralmente tagliata in due. Mons. Martinelli ne sta ospitando 54 in attesa che il governo italiano espleti le pratiche necessarie per lo stato di rifugiato politico che consentirà loro di lasciare definitivamente il paese di Gheddafi. «Noi non possiamo ospitare tutti», commenta desolato Martinelli.

 

«L’ambasciata eritrea li ha lasciati soli, li invita rientrare in patria, ma per loro sarebbe la morte. Sono in migliaia in attesa di una soluzione: i libici li ospitano ancora, dietro il pagamento di un affitto, ma per il resto non hanno nessuno. Tanti si sono accampati vicino alla chiesa copta ortodossa, essendo loro stessi copti. Ma lì danno solo assistenza medica e cibo, non possono proprio risolvere problemi burocratici».

 

La Chiesa cattolica invece proprio per i tanti contatti con l’Occidente è diventata il punto di riferimento, ma non si può certo occupare di tutti. «Siamo rimasti l’unica voce dei poveri», dice Martinelli. Ma non sono solo una voce: in questo momento le suore di madre Teresa, le francescane, le piccole sorelle sono anche le braccia per assistere malati, poveri, portatori di handicap in una casa tenuta da libici, ma dove la presenza cristiana è ancora richiesta e apprezzata.

 

Chiedo a Mons. Martinelli se anche per lui si prepara il tempo di partire. «Mai – mi risponde sconcertato – sarebbe uno scandalo. Il vescovo che parte, che va via è impensabile. Lo è per i cristiani e lo è per tanti amici libici che in questo momento vengono ancor più numerosi per essere incoraggiati, sostenuti». Mentre la guerra civile imperversa, chiediamo al vescovo quali prospettive intravede per il futuro. «Il paese è diviso, è frantumato, c’è tanto odio tra il popolo. C’è bisogno di unità nel Paese e la Chiesa può fare la sua parte, la testimonianza dice tanto» è la sua convinzione profonda.

 

Ogni giorno si sente al telefono con il vescovo di Bengasi, ma «lì ormai c’è un’altra giurisdizione» a conferma che la Cirenaica mira all’indipendenza. Il governo libico sta correndo ai ripari con aiuti economici al popolo, ai giovani, soprattutto per garantire una casa, si stanno aumentando gli stipendi, ma per Martinelli «è troppo tardi». La nostra conversazione si chiude con un appello all’Occidente: «Non serve usare la forza, le sanzioni, perché colpiscono il popolo. Bisogna ancora tentare sul sentiero del dialogo e dell’amicizia. Bisogna convincersi che così si può fare molto meglio. Il Paese va riconciliato». Un monito che indirettamente rivolge allo stesso colonnello Gheddafi.

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