Barcellona brucia?

Le proteste continuano, in varie forme, dopo la condanna degli indipendentisti. Pubblichiamo il punto di vista di un lettore catalano, per un dibattito che resta più che complesso. Come riattivare un qualche dialogo? E domenica 10 novembre si vota…

Cosa era successo quando il 22 ottobre la città di Barcellona sembrava un grande incendio? Da giorni si aspettava la sentenza della Corte suprema spagnola sui vari dirigenti catalani dopo due anni di prigione preventiva per presunta ribellione. La notifica della sentenza, lunedì 21 ottobre, è risultata un duro colpo per tanti catalani per l’inaspettata e dura condanna: fino a tredici anni di carcere (più di 100 anni complessivi per i nove in causa), pur non essendo considerati ribelli, giacché non si è riuscito a provare la violenza dei loro atti. Sono stati comunque condannati per sedizione, per il fatto di aver convocato il primo ottobre del 2017 un referendum sulla struttura politica desiderata per il futuro, d’accordo con il mandato con cui erano stati eletti a suo tempo, seppur contravvenendo alla proibizione della Corte costituzionale. Il fatto che l’agire dei condannati sia stato considerato dai giudici un atto di sedizione e non di disubbidienza, cosa che avrebbe comportato una pena molto minore, è stato interpretato dal lato catalano come se i giudici fossero stati guidati non da considerazioni strettamente giuridiche ma da concezioni politiche “spagnole”, secondo le quali l’unità dello Stato è un valore assoluto e inattaccabile.

Comunque, la severità della condanna non solo è stata valutata eccessiva e per tanti catalani persino ingiusta, ma anche incomprensibile in molti ambiti della società catalana, sia indipendentisti che non indipendentisti, società peraltro assai aperta ai valori liberali e democratici della modernità, secondo i quali la volontà popolare espressa democraticamente è suprema. Anche in alcuni settori progressisti non precisamente “catalanisti”, la sentenza è stata vista come un arretramento nei diritti civili acquisiti di libertà: introducendo nella giurisprudenza, per esempio, il principio di considerare come un crimine i movimenti di disobbedienza civile.

Già prima della sentenza, da anticipazioni varie, ci si aspettava una certa durezza della condanna e quindi erano già state convocate delle manifestazioni di protesta, dove si prevedevano centinaia di migliaia di persone, come in tante altre occasioni in questi ultimi anni in Catalogna, manifestazioni svoltesi sempre in modo esemplarmente pacifico. Alle rinnovate richieste catalane che fossero riconsiderate le pene dei loro leader e che si risolvesse sul piano politico la grave divergenza politica esistente, l’unica risposta dal governo centrale è stata quella di inviare migliaia di poliziotti, con la speranza di tacitare ogni disaccordo contro la sentenza, con un’azione di pura e dura repressione.

Ecco allora che già lunedì 21 si è sparso un appello all’occupazione dell’aeroporto, a imitazione di quanto avvenuto a Hong Kong dove questo atto, applaudito invece internazionalmente, era stato decisivo affinché le richieste della folla fossero accettate dalle autorità cinesi. Una “convocazione” partita anonimamente, ma rapidamente diffusasi attraverso le reti sociali. Così una quantità notevole di persone, arrivate a piedi, ha invaso i locali dell’aeroporto. La polizia ha fatto irruzione con durezza, anche usando mezzi vietati dal parlamento catalano come le pallottole di gomma, provocando decine di feriti. L’intervento ha fatto ricordare la violenza esercitata dalla polizia nel 2017, nel giorno del referendum.

La reazione, specie negli ambienti giovanili, è stata inaspettata. «Dopo anni di partecipazione in movimenti pacifici il risultato è assolutamente zero e quindi bisogna cambiare tattica», ha detto uno di loro. Ecco allora, il giorno seguente, radunarsi un crescente numero di giovani, tutti attorno ai 20 anni ed anche meno; ma questa volta, sia dai cartelloni che innalzavano che dalle interviste date, si capiva che non erano soltanto degli indipendentisti catalani, perché persino qualche bandiera spagnola si era affiancata a quelle catalane. Si erano in effetti date convegno tutte le frustrazione di una generazione che vede chiuso il proprio futuro nel mercato di lavoro, nell’accesso all’abitazione e altro ancora. Una generazione che quindi sente che non ha nulla da perdere.

Non si esclude, poi, che vi sia stata una “prima linea” di agitatori anonimi, di provocatori col volto coperto da fazzoletti o passamontagna, gettando palline di acciaio verso la polizia con le fionde, e incendiando macchine parcheggiate nelle strade. E tuttavia rimane sorprendente la grande quantità di giovani che li assecondavano, non solo a faccia scoperta ma persino facendosi un selfie e mandandolo agli amici, ritraendosi davanti a una barricata eretta per difendersi dalla polizia con containers incendiati assieme ad altro materiale.

La mancata risposta dei politici per trovare una soluzione politica sulla questione dei leader catalani in prigione è apparsa loro come un’icona dell’incomprensione da parte di tutta la classe politica, tanto spagnola come catalana. Una manifestazione, quella di martedì 22, che si è ripetuta nei giorni successivi colla stessa violenza o ancora più, sia da parte dei manifestanti che dalla polizia, e che ha lasciato centinaia di feriti da ambedue i lati, e con decine di manifestanti arrestati dalla polizia anche tra gente innocente che chiaramente non partecipava alle manifestazioni (c’è stato anche qualche giornalista nel gruppo di arrestati), cosa che non ha fatto altro che accendere ancora di più il furore giovanile.

«Questo è l’unico modo che abbiamo perché ci si ascolti», hanno detto. Messaggio indirizzato anche alla comunità internazionale, specialmente quella europea, che finora si è rifiutata di promuovere un dialogo tra politici spagnoli e catalani, e si è limitata a non immischiarsi negli affari di uno Stato membro che si autoproclama democratico, ma che ha mantenuto – secondo l’opinione di tanti osservatori – non pochi aspetti dell’era di Franco di cui lo stesso re Felipe VI si considera un erede.

Pare quindi difficile che si riesca a trovare una via di uscita nel prossimo futuro, tantomeno prima del 10 novembre in cui vi saranno le elezioni generali. I partiti a livello statale introducono nella loro campagna una forte dose di anti-catalanismo e competono tra loro in proposte di più marcata repressione, per attrarre così i voti di una maggioranza di cittadini vicini al nazionalismo spagnolo, escludendo ogni possibilità di “pluralità nazionale” sul territorio. Una propaganda partitica del tutto irresponsabile che non fa che dividere sempre più i cuori delle comunità spagnola e catalana.

 

Ma è egualmente inaccettabile la strategia di certi politici catalani che, per lo stesso motivo ma di segno opposto, introducono nel loro programma, d’accordo col deposto presidente Puigdemont, la ripetizione del referendum pro-indipendenza, che oggi risulta irreale, quando egli stesso, nell’ottobre 2017, aveva lasciato cadere nel nulla la votazione pro-indipendenza di milioni di catalani. Ma anche i politici europei mi sembra che abbiano oggi la loro parte di responsabilità, perché non operano per forzare le parti a superare la loro incapacità di dialogo e a far prevalere in Spagna i valori della modernità, incominciando da quello della effettiva separazioni tra poteri esecutivo e giudiziario.

 

I vescovi catalani hanno affermato che un retto ordine sociale «ha bisogno di qualcosa in più dell’applicazione della legge», aggiungendo che «ogni progetto umano si sostiene sull’adesione libera e democratica… Ci vuole quindi un dibattito politico e sociale rispettoso». Hanno ricordato poi Giovanni XXIII che, all’apertura del Concilio Vaticano II, aveva indicato come gli uomini e le donne di oggi «ogni giorno sono più convinti che la dignità della persona umana è di somma importanza», affermando inoltre che «è preferibile usare il rimedio della misericordia che non brandire le armi della severità». Un cammino, questo della misericordia, che vedono necessario per «disattivare la tensione accumulata in questi ultimi anni e ritornare ad un serio dialogo tra i governi spagnolo e catalano».

 

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