Baia di sopra e di sotto

I nuovi tesori sommersi della città termale dei Campi Flegrei che per cinque secoli fu prediletta dai romani come luogo di villeggiatura e di cura
Protiro a Baia. Foto: Pasquale Vassallo

Azzurro e luminoso si dispiega da punta Epitaffio al promontorio opposto, che lo chiude, quel sinus baianus celebre per bellezze naturali, amenità del clima e coltivazioni di ostriche, ma soprattutto per le virtù terapeutiche delle acque sgorganti ai piedi delle colline, sulla spiaggia e nello stesso mare: attrattive all’origine del lussuoso centro residenziale di Baia con la sua catena di ville lungo tutto l’arco del golfo di Pozzuoli. Meta ambita dalla gaudente società romana e da imperatori a partire dal I secolo a. C. fino al IV d. C., quando a causa del bradisismo discendente cominciò a essere inghiottita nel mare insieme ai suoi impianti termali; denigrata dai benpensanti per gli eccessi dei frequentatori di quella sorta di Baden Baden dell’antichità; ridottasi nella sua decadenza all’ombra di sé stessa, quasi emblema delle vanità che passano e tuttavia – a cominciare dall’alto Medioevo – ancora ricercata da sovrani, uomini di scienza e gente comune a motivo delle superstiti fonti salutari, tra Settecento e Ottocento Baia divenne tappa irrinunciabile dei viaggiatori del Grand Tour, ai quali esibiva come ultime testimonianze del suo passato splendore tre imponenti ruderi riprodotti in tutti i gouaches dell’epoca. Erroneamente definiti dalla tradizione antiquaria templi di Mercurio, Venere e Diana, erano in realtà grandiose sale per i bagni termo-minerali e di vapore.

Che Baia fosse ancora tutta da scoprire lo rivelarono gli scavi intrapresi da Amedeo Maiuri prima e dopo l’ultima guerra sul fianco della collina che sovrasta il moderno borgo di pescatori, cui seguirono negli anni Cinquanta del secolo scorso le prime esplorazioni subacquee condotte con rigore scientifico. Oggi imbarcazioni con la chiglia vetrata e visite guidate da archeologi sub svelano agli appassionati le meraviglie di questa Atlantide sommersa.

Su tanta storia vado riflettendo da un belvedere sulla sommità del Parco archeologico che in quattro livelli sovrapposti digrada scenograficamente verso il mare, tra quartieri termali e di soggiorno, portici e terrazze: un complesso edilizio che in quasi 500 anni di vita ne ha viste di trasformazioni, fino a quella di probabile albergo per una clientela scelta nell’ultimo periodo che precedette l’abbandono del sito, spogliato del prezioso rivestimento di marmi, mosaici, stucchi, affreschi e del suo arredo scultoreo, e oggi minacciato dall’erosione dell’aria marina e delle acque dilavanti dall’alto, ma anche dalla stessa esuberante vegetazione mediterranea.

A tutto poi s’aggiunge il bradisismo. Se si paragonano allo stato attuale certe vedute settecentesche, molti ambienti del settore a livello del mare appaiono ulteriormente sprofondati. Ne è prova l’interro di oltre sette metri del cosiddetto Tempio di Mercurio, una sala la cui cupola dotata di un occhio di luce centrale, conservata integralmente, anticipa in scala minore quella del Pantheon. Costruito in prossimità di una sorgente calda solforosa, è oggi invaso fin quasi all’imposta della volta dall’acqua termale e marina in cui nuotano pigramente pesci venuti da chissà dove.

Vanno invece cercati fuori dell’area del Parco i cosiddetti Templi di Venere e di Diana, entrambi a pianta circolare all’interno ed ottagonale all’esterno. Di età adrianea il primo (117-138 d. C.), aveva una copertura del tipo a ombrello, formata da sedici spicchi. Interrato fino all’altezza dei finestroni il secondo, attribuibile al III secolo d. C., presenta la cupola ovoidale, la più grande dell’antichità dopo quella del Pantheon, crollata per metà. Possiamo solo immaginare la bellezza di queste sale grandiose, incrostate di marmi, mosaici, e adorne di sculture che si specchiavano nelle piscine sottostanti.

Cosa ha reso possibile architetture così originali e ardite, prototipo e modello per successivi edifici attestanti la sapienza costruttiva dei romani? L’opus caementicium, un tipo di calcestruzzo la cui componente principale era la pozzolana (o polvere di Pozzuoli, composta da pietre di tufo). Questo materiale vulcanico diffusissimo nei Campi Flegrei, frammisto alla malta, fornì qui per la prima volta un legante leggero ed economico, ottimale per costruire volte curvilinee, argini, ponti e moli grazie alla sua proprietà di far presa sott’acqua.

Sullo sperone roccioso dirimpetto a punta Epitaffio il Museo Archeologico dei Campi Flegrei – allestito nel cinquecentesco Castello aragonese, sorto a sua volta sui resti di una villa romana – custodisce reperti provenienti, oltre che da Baia, da Cuma, Pozzuoli, Miseno e Literno. La sola Baia ha restituito, fra l’altro, una serie di calchi in gesso di celebri originali greci in bronzo: un vero unicum, che testimonia la presenza di una officina scultorea locale, operante per la committenza imperiale. Splendida la ricostruzione del ninfeo sommerso di età claudia ritrovato sotto punta Epitaffio, col suo corredo statuario di altissima qualità raffigurante il mito di Ulisse e Polifemo, divinità e personaggi della famiglia imperiale. Le sculture mancanti dovettero essere state rimosse nel V secolo, quando questo ambiente di svago e riposo era già parzialmente inondato.

Intanto nella parte sommersa del Parco archeologico, quella del Portus Julius, continuano ad affiorare – dalle sabbie smosse da mareggiate o dalle ricerche di archeologi sub – domus, ville, ninfei, edifici di servizio, strade, moli, cisterne e peschiere, ora silente asilo di pesci e altre creature marine. Là, a pochi metri sotto la superficie, si estende la Baia prodiga di sempre nuove scoperte, favorite forse anche dalla scomparsa parziale, dovuta ai cambiamenti climatici, delle praterie di poseidonia, che occultavano intere zone del quartiere marittimo scomparso. Tra i più recenti ritrovamenti, l’impianto termale di una grande villa patrizia, sontuosamente abbellita da pavimenti a mosaico e marmo policromi sovrapposti a più livelli: vano tentativo di arginare l’inarrestabile invasione del mare; e due altari del tempio dei Nabatei, popolo di mercanti mediorientali la cui capitale era Petra (oggi in Giordania), ma che avevano anche una propria colonia nei Campi Flegrei.

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