Audace eppure umile

Ha deciso di andare in pensione Ratan Tata, industriale indiano venuto dalla strada che ha portato la sua holding ad essere un gigante globale. Apriva aziende in parti depresse del Paese per favorirne lo sviluppo. Alcuni insuccessi sono legati anche al suo non scendere a compromessi con la politica
Ratan Tata

Il 28 dicembre Ratan Tata è andato in pensione. Lo aveva preannunciato da tempo. A prendere il suo posto sarà, per la seconda volta, nella storia mitica dei Tata, non un membro della famiglia. Cyrus Mistri, da un anno designato a succedergli, pur essendo un parsi come i Tata, ha passaporto irlandese e per la prima volta l’azienda avrà un presidente di nazionalità non indiana.

Con l’uscita di scena di Ratan Tata scende il sipario su un pezzo di storia importante per questa impresa, fondata nel 1874 da Jamshedji Tata come ditta tessile e capace, poi, di diversificarsi in una molteplicità di settori: dall’acciaio, all’auto, dai prodotti chimici ad una rete di hotel e ad altri servizi, per arrivare oggi ad essere un conglomerato capace di adattarsi ai tempi e scendere in campo nel settore informatico e della finanza.

Ratan, è stato esemplare nel suo cominciare dalla gavetta, in una delle industrie di famiglia per arrivare fino all’apice della piramide, dove nel 1991 aveva sostituito la leggenda di Jeh, il soprannome familiare con cui tutti chiamavano  Mr. J. R. D. Tata, al timone di comando dal 1938. Agli inizi degli anni ’90 l’India era ancora lontana dal boom economico che l’ha contraddistinta con il nuovo millennio. L’economia era ancora quella impostata dal Pundit Nehru, che univa un’impostazione statale ad un sistema ancora autarchico. Da lì a poco ci sarebbe stata la svolta provocata proprio dall’attuale Primo ministro Manmohan Singh, capace di aprire il gigante indiano ad un’economia di mercato monitorata e, quindi, attenta a non vendersi alle multinazionali. Fu questa l’ancora di salvezza di fronte alla crisi, che, alla fine degli anni novanta, avrebbe colpito altri Paesi del continente, soprannominati le Tigri dell’Asia.

Tata è riuscito a pilotare la grande azienda di famiglia in questo ventennio tutt’altro che facile, ma di grande ascesa economica, e a giocare le sue carte sul mercato mondiale. Ha trasformato il gruppo da una conduzione familiare ad una istituzionalizzata capace di entrare come protagonista nel mondo della globalizzazione. Non sono stati anni facili, spesso a causa di resistenze interne portate proprio da chi aveva costruito un sistema ormai obsoleto e non accettava il cambiamento richiesto dai tempi e da una prospettiva dell’economia e della finanza che si era trasformata nel giro di pochissimo tempo.

La politica di Ratan era chiara: investire in affari dove si poteva essere fra i primi tre sul mercato. Sparirono nel giro di pochi mesi alcuni punti fissi, come la Tata Oil Mills, o altri di riferimento non solo per il gruppo Tata, ma per il cittadino indiano. La fabbrica di saponette Hamam fu venduta ad un concorrente la Hindustan Lever, creando il panico nell’economia locale non abituata a vedere il gruppo Tata vendere qualcosa. Tata sapeva, infatti, di aver ereditato un elefante bianco che doveva incominciare a camminare, anzi a correre. Lanciò il gruppo verso il futuro: IT, telecom, servizi finanziari e aerolinee, oltre che la rete di Hotel già di sua proprietà. Tata Consultancy Services, per esempio, è cresciuta rapidamente senza particolare bisogno di assistenza personale da Tata, che aveva individuato i dirigenti giusti per il nuovo settore.

Ci sono stati anche incidenti di percorso, indubbiamente. Ratan non è mai riuscito ad entrare veramente nel settore dell’aviazione – sembrava ad un passo da uno storico accordo con la Singapore Airlines – per problemi economici e di investimenti, ma anche per questioni politiche. Come pure politiche sono state le difficoltà che hanno impedito la realizzazione della fabbrica per la produzione della Nano, prevista in una zona del Bengala, particolarmente depressa che Tata sperava di poter aiutare ad uno sviluppo sostenibile.

Ma probabilmente la delusione più cocente è stata quella nel settore delle telecomunicazioni, dove, sebbene avesse potuto acquisire un accesso internazionale attraverso il provider VSNL del governo indiano, non è mai riuscito ad adottare le strategie previste per uno sviluppo secondo le attese e le previsioni.

Ma tutto quanto accaduto in questi anni, nel bene e nel male, ha dimostrato che Ratan Tata è prima di tutto un uomo, di successo certo, ma anche con delusioni e fallimenti, spesso anche con problemi per i giochi della politica con la quale non è mai sceso a compromessi. Molti lo ricorderanno per le quattro ruote più piccola – la già ricordata Nano – che sia apparsa sul mercato fino ad oggi. Ma altre auto della Tata Motors hanno avuto un grande successo, come la Indica, ormai presente su molti mercati sia in Europa che in America Latina. Fece, poi, scalpore l’acquisto della Jaguar Land Rover, avvenuto nel 2008 per una somma pari a 2.3 miliardi di dollari.

Uscito di scena, molti tentano un bilancio del ventennio Ratan Tata alla testa della grande gruppo indiano. Probabilmente, si dice, tre sono stati i motivi per i quali verrà ricordato: aver saputo creare un gruppo coeso da un conglomerato di industrie e da parti giustapposte; essere riuscito a focalizzare le priorità del gruppo anche a costo di decisioni controverse ed impopolari e, soprattutto, essere entrato sul mercato internazionale portando un grande gruppo indiano ad essere un gigante globale.

Cyrus Mistry eredita un colosso all’interno del quale dovrà operare cambiamenti e portare innovazioni, in un momento fondamentalmente di crisi finanziaria che tocca anche l’Asia, sia pure indirettamente. Molte sono le eredità che Ratan Tata gli lascia. Ma la più significativa, mi pare, sia una lezione personale, che ha espresso un articolo apparso in questi giorni sul quotidiano The Hindu a firma R. Seshasayee. Il titolo è significativo: Audace, eppure umile.

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