Anni di piombo. Spettatori o parte in causa?

Un tempo di contrapposizione e di estremismi, ancora difficile da interpretare perché oscurato da retorica ideologica o coperto dal segreto di Stato. Diverso il rilievo dato a vittime e protagonisti
Brigate Rosse
«Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti», cantava De Andrè in un passaggio del suo lavoro Storia di un impiegato (1973), nel pieno di uno tra gli snodi più delicati e drammatici nella storia della Repubblica italiana: gli anni di piombo. Cosa furono veramente e cosa rappresentarono? Difficile darne una definizione esaustiva.

 

Certo furono il risultato dell’accumulo di tensioni, di scontri ideologici che hanno coinvolto e messo a confronto generazioni, ceti sociali, partiti politici, lasciando aperte domande che in parte ancora attendono risposte. Una mai sopita contrapposizione tra estremismi (di cui il binomio fascismo-antifascismo rappresenta una riduttiva semplificazione), la contestazione del ’68, il saldarsi del fronte operaio con l’inquieto movimento studentesco, la crisi di rappresentanza tra ceto politico e paese reale, lasciò spazio ad una lunga serie di attentati, ad una “strisciante” guerra civile nella quale non si confrontarono solamente “rossi e neri”, ma stato e società, passato e futuro, speranza e frustrazione.

 

Tra i tanti dubbi, una certezza: la violenza, che dalla strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) porta fino agli omicidi recenti di D’Antona, Biagi (per fermarsi solo ai casi più noti), è stata spesso l’unico, devastante risultato del crollo delle illusioni rivoluzionarie, della campagna di mistificazioni di chi pensava che combattere l’autorità, il potere, qualunque esso fosse, non dovesse porsi limiti di legalità, non potesse comprendere la fatica del dialogo, del costruire insieme le fondamenta del vivere sociale. Di quel periodo, sovente, si ricordano soprattutto processi giudiziari conclusi senza essere approdati ad accertamenti di verità, con indagini coperte dal segreto di Stato.

 

Riecheggiano alcuni tra gli slogan maggiormente in voga nei cortei o nei passaparola tra gli affiliati ai gruppi di lotta armata: «Lo Stato borghese non si cambia, ma si abbatte»; o ancora: «Passare dalla forza della ragione alle ragioni della forza». La retorica contenuta nei messaggi rivendicativi delle azioni di commando, le false convinzioni di una temperie culturale e politica hanno guidato una rivoluzione monca e oggi compaiono, per lo più, nelle ricostruzioni storiche e nelle analisi giudiziarie alle quali hanno contribuito numerosi pentiti del terrorismo, collaboratori di giustizia che hanno lasciato il carcere per una legislazione che ha premiato, probabilmente con ragionamento corretto, chi si è dissociato ed ha contribuito a smantellare le reti terroristiche.

 

Ma in tutto questo, spesso si può notare come non si sia data voce a tutte le parti coinvolte nelle drammatiche vicende di quegli anni. Chi ricostruisce, chi analizza usufruendo della ribalta mediatica (collaborazioni giornalistiche, comparse televisive, cinema), chi spesso chiede perdono per atti che oggi appaiono sbagliati nei metodi e nei contenuti, sono gli stessi che ne sono stati protagonisti con le azioni terroristiche, le battaglie politico-ideologiche. Invece, coloro che parlano con difficoltà, che raramente è possibile ritrovare in spazi di dialogo e divulgazione (anche per l’incapacità dei mass-media di interessarsi al lato più doloroso e privato delle vicende), sono i co-protagonisti di quegli anni: i famigliari delle vittime, le loro storie e i passi compiuti in anni dove ci si è giocati tanto nel confronto tra politica, opinione pubblica, coesione sociale.

 

Oggi si riflette su quelle vicende avvertendo l’imperativo che contraddistingue tutti i passaggi storici più complessi e dolorosi, che portano a dire: Mai più. Ma siamo così sicuri di essere al riparo da logiche di contrapposizione che portano con sé atteggiamenti violenti? Ci sentiamo sereni all’interno di una società nella quale i giovani subiscono l’incertezza materiale, l’individualismo esistenziale, l’incapacità di pensare percorsi condivisi? L’apertura degli archivi, fondamentale per garantire il diritto alla verità e alla ricostruzione esatta delle vicende, non potrebbe essere preceduta da una volontà di mettersi in ascolto di quanto ancora è stato poco valorizzato e compreso? Con questo speciale si vuole provare a dare voce e spazio a qualche suggestione che nasca da ambiti vicini a chi il dramma ed i problemi li ha affrontati, senza la pretesa di informare ed esaurire un tema, ma andando a “pescare” tra gli spazi frequentati spesso solo in occasione delle ricorrenze.

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