Alla verticale non si sfugge

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“Io sono l’Essere la cui essenza consiste nel giocare a rimpiattino, nascondere il mio volto e nel giungere alle vostre spalle per sorprendervi. Millennio dopo millennio. In fondo, sono stato la poesia stessa: un mito che dice la verità. E la verità è che voi non potete rinunciare a un poema, a un sogno collettivo o a una scintilla di altrove, se volete vivere e non solamente esistere. (“) Trovatevi qualcun altro, se vi va, ma alla verticale non potete sfuggire. Ci incontreremo di nuovo. Io o un altro” Addio”. Così termina il discusso saggio di Debray: Dio, un itinerario. Per una storia dell’Eterno in occidente. Mettendo proprio in bocca a Dio, protagonista unico del suo libro, queste parole” Regis Debray, nato a Parigi nel ’41, proviene dalla militanza nel marxismo rivoluzionario. Amico di Fidel Castro, nel ’67 era in Bolivia con Che Guevara. Arrestato, fu condannato a trent’anni di reclusione da un tribunale militare di quel paese. Cominciarono in quel periodo, in carcere, le sue riflessioni sul fatto religioso. Dopo tre anni fu rilasciato per le pressioni del governo e degli intellettuali francesi. Fu anche calunniosamente accusato di aver tradito il Che. Tornato in Francia, divenne consigliere di Mitterrand per i problemi dell’America Latina. Alla Sorbona è docente di mediologia, la scienza che si occupa di massmedia; o più generalmente dei fattori che permettono a un’entità di esistere, comunicarsi, perpetuarsi. Ed è proprio applicando il metodo della mediologia che egli ha condotto un lungo e appassionato studio sulle tracce dell’itinerario percorso dal Dio cristiano nella storia. “Ovviamente è una scommessa, una sfida” o forse una pazzia” confessa in un’in- tervista. “Dio, in apparenza è l’esatto contrario di quello che studia la mediologia: si presenta come un’immediatezza, uno stupore”. Debray si definisce agnostico, ma sostiene di essere un curioso osservatore del fatto religioso. E non nasconde una forte dose di empatia cristiana: “Io non credo all’esistenza di Dio. Ma non mi interesserebbe un uomo che non avesse mai inventato Dio. È in questo che ritengo la testimonianza cristiana fondamentale, anche per un laico secolarizzato come me”. Il saggio di Debray, che in Francia ha avuto un gran successo editoriale ed è stato tradotto in molte lingue, ha fatto molto discutere sia in ambienti religiosi sia nelle roccaforti della laicità repubblicana. Ovviamente il suo approccio è originale: non parte né dal punto di vista del teologo, né da quello del sociologo delle religioni; e neppure racconta un’esperienza mistica personale. Egli si propone di fare un’analisi materialistica di un evento spirituale, applicando i metodi della sua indagine ad un campo che non è di sua stretta pertinenza. Tenta, insomma, con lo sguardo del mediologo, di spiegare l’influsso del progresso tecnologico nella storia del pensiero occidentale, Dio incluso. Questo può rappresentare un rischio. In genere, però, conviene sempre essere riconoscenti a chi aiuta a guardare alle cose da un punto di vista completamente differente dall’abituale. Specialmente se chi lo fa ha una certa competenza. Lì per lì, si può restare disorientati. Ma può diventare una ginnastica salutare: un contributo per approfondire conclusioni diventate un po’ stantie, per far fiorire nuove idee. Insomma il concetto cardine dell’analisi di Debray, detto in un modo un po’ banale, ma che rende il concetto, è che Dio si è sempre evoluto per rimanere competitivo. Dal giardino dell’Eden al nostro mondo globalizzato la strada è stata lunga: il Dio “degli eserciti”, il Dio nazionale del popolo ebraico ha fatto un lungo percorso per diventare il Dio Amore, intimo e universale dei cristiani; che è ancora assai diverso dall’Allah senza clero dei musulmani o dall’energia cosmica impersonale della New Age. Ma alcuni fattori, in questo tragitto, secondo l’autore, sono stati determinanti. Come, ad esempio, l’invenzione della scrittura alfabetica, che ha reso il Dio degli ebrei “trasportabile”. Anche quando il Tempio è stato distrutto, il culto non è cessato: Dio continuava ad essere con il suo popolo eletto proprio tramite la parola scritta. Non è avvenuto insomma quello che è successo in altre culture dove, demoliti i templi e le statue, anche gli dei scomparivano. Altre tappe importanti di questo itinerario sono l’esilio e il deserto. Da Abramo in poi, sembra essere stata proprio l’esperienza dello sradicamento dal conosciuto, dalle proprie abitudini e certezze, a favorire l’incontro con l’Eterno. E poi il deserto, con la sua richiesta di assoluto, con la sua sovrumana solitudine – quel deserto che “non è democratico” come ama dire Debray. Nel deserto, da Mosè e la sua gente in viaggio verso la Terra Promessa, agli anacoreti dell’Egitto o della Palestina, si sono compiute tappe fondamentali della rivelazione di Dio: perché lì tutte le altre voci si fanno silenzio. Poi il secolo dei lumi. Debray non è tenero verso l’utopia che prevedeva lo scioglimento della religiosità nella scienza: “Io sono un figlio dei lumi. Come tutti i pensatori critici. Ma constato che la profezia dei lumi secondo cui la scienza avrebbe rimpiazzato la fede è stata smentita dai fatti. Ora (“) si torna alle religioni dei Libri o ai loro surrogati”. Debray, nel suo volume sottolinea inoltre la funzione essenziale della chiesa: egli afferma, contro chi auspicherebbe un Dio senza dogmi, senza clero, che questa sarebbe una pura e vana visione dello spirito, senza alcuna realtà. Perché dove non c’è istituzione non può esistere tradizione e quindi nessuna trasmissione. Insomma, per il nostro autore, il mistero cristiano è sia il messaggio che la sua continuità. Tutto il suo lavoro, che mai si scosta dalla prospettiva del laico che affronta il fenomeno di Dio in occidente, è sostenuto dall’idea che il cristianesimo è tutt’altro che superato, che ha ancora molto da dire all’uomo d’oggi. Che in ognuno c’è, per usare sue parole, “una sorta di appello quasi biologico a ritrovare ciò che costituisce un legame fra gli uomini”. Insomma, per quanto l’uomo moderno occidentale si barrichi dietro alle sicurezze che il progresso tecnologico e il benessere gli danno, alla verticale non può sfuggire. Non può fare a meno della trascendenza, per quel qualcosa di innato che, come diceva Pascal, spinge sempre l’uomo a superare l’uomo. Ed anche perché la storia, abbastanza tragica, dell’ultimo secolo ha dimostrato che “quando Dio non c’è più si trovano dei sostituti estremamente pericolosi”.

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