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Unità e comunicazione: un ecosistema integrato

di Giulio Meazzini

Giulio Meazzini, autore di Città Nuova

Intervista con Matteo Pota, direttore di Focolare Media, azienda no profit che negli Stati Uniti pubblica, tra le altre cose, Living City, la rivista sorella di Città Nuova

Matteo Pota vive a Los Angeles, nella «bellissima comunità» del focolare. Da tre anni è il direttore di Focolare Media, un’azienda non profit di comunicazione che ha come obiettivo di accendere lo spirito dell’unità in Nord America, ma non solo. Tra le altre cose pubblica Living City, la sorella americana di Città Nuova.

Come hai impostato il lavoro in Focolare Media?

Quando ho cominciato questo lavoro (prima mi occupavo di marketing), ero appena tornato da un viaggio nella Repubblica Dominicana, dove con altri giovani vivevamo in una piccola casa che si chiamava la Casita. A me piaceva quest’idea di vivere in una casa tutti insieme, e quando ho cominciato a lavorare come direttore ho presentato al Consiglio di amministrazione e a tutti i dipendenti il modello di Casita. Significa che Focolare Media doveva essere un posto con diverse porte, in cui entrare attraverso diversi medium: la rivista, i libri, la parte digitale. Poi, però, una volta dentro, doveva essere un open space, uno spazio aperto dove le persone potessero passare da una stanza all’altra in maniera libera. Quindi se uno accedeva attraverso il giornale o i libri o un video o un podcast, poi doveva essere in grado di accedere a tutto il resto.

Insomma, dovevamo creare un ecosistema integrato, che avesse diverse porte ognuna col suo specifico medium, con le sue specifiche regole, la sua specifica audience, ma una volta che uno era entrato doveva essere abbracciato dall’intero ecosistema.

Altra cosa importante è che cerchiamo di vivere lo spirito che cerchiamo di portare fuori, cioè lo spirito di comunità. Infine la parte digitale: cercare di spingere il più possibile i nostri contenuti sul digitale, perché è lì dove c’è la possibilità di ampliare il nostro pubblico.

Quindi avete una rivista cartacea, Living City e poi?

Abbiamo un sito, che contiene sia gli articoli della rivista sia articoli web exclusive, cioè quelli che pubblichiamo solo sul web, ma sono curati dal team editoriale della rivista. Nel sito vendiamo anche i nostri libri, pubblichiamo i nostri video e i nostri podcast. Tutte queste risorse sono il più possibile collegate le une alle altre, quindi in qualsiasi pagina del sito troverai un rimando a qualcos’altro del sito stesso. L’idea è quella di un ecosistema interconnesso.

Per la rivista siete passati recentemente da mensile a bimestrale, come mai?

Da una parte c’è una necessità economica, per concentrare le risorse e fare meno numeri ma più curati. Dall’altra, per la rivista cartacea volevamo avere qualcosa che controbilanciasse il web, dove pubblichiamo articoli di attualità, di solito uno o due a settimana, tratti dalla rivista o specifici per il sito. L’idea è quella di avere in formato cartaceo qualcosa che le persone possano aprire e leggere con calma, meditare senza fretta. Soprattutto qualcosa non legato allo scrolling [scorrimento veloce] del cellulare o tablet. Per questo abbiamo cominciato a fare gli articoli sulla rivista un po’ più lunghi, perché questo permette di articolare meglio gli argomenti e le riflessioni, come non riusciresti a fare in un articolo online, che deve essere più breve. Pensiamo che ci sia un modo di fare comunicazione, soprattutto quando si parla di spiritualità, che ha bisogno di lentezza, di articolazione e di calma, come soltanto la parte cartacea può dare. Speriamo che le persone apprezzino questo andare in controtendenza rispetto alla velocità del web. Anche perché ci sono alcuni argomenti, soprattutto quando si parla di polarizzazione, unità e comunità, che puoi affrontare soltanto se ti calmi, fai un bel respiro e piano piano leggi la rivista cartacea, senza essere bombardato da 1000 input come quando leggi un articolo sul cellulare.

Come per tutti i media negli Stati Uniti, una grossa fetta dell’introito non deriva dagli abbonamenti, ma dalle donazioni. Ci spieghi come funziona?

In generale i media religiosi o non profit negli Stati Uniti prendono il 40 o 50% dei loro introiti dalle donazioni. La cultura americana è una cultura molto filantropica. La filantropia è incentivata da forti incentivi per le tasse. Anche in ambito religioso le parrocchie e le chiese si reggono sulle donazioni dei privati. Le persone sono abituate. Quindi quello che abbiamo fatto a Focolare Media è imparare dai nostri competitor, cioè dai media di altri ordini religiosi o legati ad ambiti religiosi, e spingere, investire sul fundraising, cioè sulle donazioni.

Questo significa che in tutto quello che facciamo cerchiamo di raccogliere il più possibile i dati che ci permettono di far capire alla nostra audience, ai nostri lettori, l’impatto dei nostri contenuti sulla vita delle persone, perché noi pubblichiamo libri, facciamo articoli e video, ma la nostra mission è quella di accendere lo spirito dell’unità. Alla fine quello che vogliamo è avere un impatto sulla vita delle persone e sulla società. Devi però mostrare alle persone questo impatto, in modo che possano supportarti con le loro donazioni. Anche perché ci sono alcuni progetti editoriali che non possono essere sostenuti dalle vendite, alcuni video, podcast e servizi possiamo farli solo se c’è qualcuno che dona per la nostra missione e ci permette di farli. In questo momento le donazioni coprono il 27% dei nostri introiti, ma dobbiamo migliorare.

Puoi fare un esempio di prodotti che dipendono solo dalle donazioni?

Sono prodotti che hanno un grande impatto. Per esempio, abbiamo fatto una serie di video sui punti della spiritualità dell’unità, ben curati, tutti sostenuti da donazioni. Abbiamo un podcast della Parola di vita sostenuto da donazioni. Anche gli articoli gratis che appaiono sul sito, sono sostenuti dalle donazioni di persone alle quali piace la nostra mission.

Quanti abbonati avete alla rivista cartacea?

Intorno a 1600 abbonati. E circa 115 donatori. Le donazioni vanno da 5 dollari fino a 25.000 dollari (la più grande che abbiamo avuto finora).

Avete anche costruito, insieme al Movimento dei Focolari, una Fondazione…

Il Movimento dei Focolari negli Stati Uniti ha costituito una fondazione che si chiama Focolare Foundation. Questa ha il compito di sostenere economicamente il movimento. Tutti i principali movimenti e organizzazioni cattoliche, e non cattoliche, negli Stati Uniti hanno una fondazione. Ci sono persone dedicate che svolgono il loro lavoro cercando donazioni, grant, insomma un certo ammontare di denaro che poi viene investito in modo sicuro, e che dà una somma annuale.

Questa somma viene utilizzata per pagare le persone che lavorano per la fondazione in maniera professionale e per finanziare le attività del Movimento dei Focolari, in questo caso in Nord America. È un modello che tutti usano, perché permette di professionalizzare questa attività, in modo da poterti dedicare alla parte pastorale e carismatica in maniera più tranquilla, avendo una base solida di sostenibilità nel lungo periodo.

Parliamo della società americana, che dall’esterno appare così polarizzata…  come vivi il tuo essere un focolarino?

Penso che la società americana abbia un grandissimo potenziale. È un esperimento sociale ancora unico nel mondo, perché è ancora una società che si regge in modo importante sull’immigrazione. Nonostante quello che sta succedendo nell’ultimo anno, un grandissimo numero di persone sono nate all’estero o sono negli Stati Uniti da poche generazioni. Negli Stati Uniti tutti hanno una doppia appartenenza, sono “americani e… qualcosaltro”, per esempio  “americani e asiatici”, “e afroamericani”, “e ispanici”. Una nazione che riesce in un qualche modo a stare insieme su un’entità che non è mono-linguistica, mono-culturale, mono-storica, è sicuramente un vantaggio per la cultura dell’unità. Certo, ci sono grandi prove che la nazione americana sta attraversando. Sicuramente vedo che c’è un grandissimo interesse per chi tira per la comunione, per l’unità. Molte delle donazioni che prendiamo è perché proponiamo un messaggio a cui la gente tiene: è vero che la polarizzazione aumenta, ma aumenta anche la preoccupazione che le persone hanno per questa divisione. È un problema che si sente molto anche nella Chiesa. Fatto sta che la gente comincia a dare soldi e fondi a chi parla di unità.

Un’ultima domanda: hai 39 anni, sei giovane. Come vedi il futuro della tua generazione in questo mondo iper-tecnologico, come vedi il futuro dell’umanità?

Sono molto ottimista, perché vedo tanti segni positivi attorno a me. Sono stato forse anche fortunato negli ultimi anni a lavorare in un’azienda che mi ha permesso di toccare con mano come le cose possono cambiare. Con difficoltà, ma possono cambiare, ti possono sorprendere in positivo. Puoi rimanere sorpreso non soltanto dalla Provvidenza, ma anche dal lavoro e dalla generosità delle persone. E quindi sì, ho visto tante cose belle che andavano oltre le mie migliori aspettative e questo mi dà molta speranza.

 

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