L’impressione che l’intelligenza artificiale stia “cambiando tutto” è oggi molto diffusa. Comunicatori, giornalisti, educatori avvertono che qualcosa si muove sotto la superficie: le macchine scrivono, sintetizzano, analizzano, propongono. È facile che emerga la paura di essere sostituiti o di perdere il controllo su processi che, fino a ieri, erano affidati esclusivamente all’intelligenza e alla sensibilità umane. Eppure questa paura, pur comprensibile, rischia di oscurare la domanda più importante: che cosa, nonostante tutto, continua a dipendere da noi?
L’IA accelera molte attività e consente una gestione più ordinata delle informazioni. Può essere un aiuto nelle comunicazioni interne delle istituzioni educative, sociali e organizzative in senso ampio: organizza contenuti, filtra ciò può essere superfluo, elabora sintesi utili, suggerisce formulazioni originali. Ma non comprende. Elabora insomma relazioni statistiche, non relazioni umane. Non coglie il senso, il contesto, il “non detto” che accompagna ogni scambio autentico. Non percepisce la fragilità, non riconosce un conflitto latente, non immagina la fatica di una comunità che cerca di seguire una direzione. E questo vale, dicevamo, non solo per chi comunica nelle istituzioni, ma anche per chi educa o fa informazione.
Per questo l’intelligenza artificiale non riduce le nostre responsabilità ma le amplifica. Automatizzando ciò che è ripetitivo, ci costringe a mettere al centro ciò che non può essere delegato: la qualità delle parole, la responsabilità nel trasmettere messaggi sensibili, la capacità di leggere il clima di un gruppo, di interpretare i bisogni, di costruire fiducia. Dunque, l’IA può senz’altro assistere, ma non può ascoltare. Può produrre testi, ma non può “immaginare” il loro impatto. Può proporre un tono, ma non vivrà mai “la storia” di una relazione. E chi lavora nella comunicazione – come chi insegna o chi fa giornalismo – sa bene che è in questi dettagli che si gioca la credibilità.
Una nuova grammatica del comunicare
Da questa consapevolezza possiamo immaginare una sorta di (nuova) grammatica del comunicare nell’epoca dell’IA, una struttura semplice che può aiutare a orientarsi meglio senza smarrire ciò che resta – e deve restare – essenziale.
Il primo passo è quello dell’essere: adottare cioè un atteggiamento equilibrato, che riconosce le potenzialità dell’IA senza cedere alla fascinazione né al rifiuto tout court. Poi c’è il fare: formarsi con competenza, sviluppare capacità sia tecniche che critiche per utilizzare gli strumenti in modo consapevole. Quindi occorre agire: tradurre queste capacità in scelte concrete, valutando quando la tecnologia può sostenere un compito e quando invece rischia di complicarlo. Infine, bisogna accompagnare: farsi presenti accanto alle persone, ai colleghi, agli studenti, perché ogni transizione tecnologica porta con sé timori, attese e vulnerabilità che nessuna macchina potrà affrontare al nostro posto.
In questo quadro si inserisce una riflessione a cui tengo molto: chi comunica – e lo stesso vale per chi racconta la realtà attraverso il giornalismo – non svolge soltanto un mestiere tecnico o creativo. È un lavoro artigianale, fatto di cura e precisione; è una vocazione, in cui la parola è servizio al bene comune; ma è anche, sempre più, un compito educativo.
Comunicatori e giornalisti sono spesso le prime figure che aiutano le persone a interpretare ciò che accade, a dare un nome ai fenomeni, a orientarsi nelle complessità del presente. Sono, in un certo senso, accompagnatori della società: non maestri che spiegano tutto, ma presenze che custodiscono il senso, che aiutano a non cedere alla superficialità, che favoriscono una comprensione più profonda dei fatti e delle relazioni.
Questa sorta di paradigma relazionale – concetto tanto caro al sociologo Pierpaolo Donati – non è un ornamento etico, ma una necessità strutturale. Le istituzioni vivono di relazioni, e la comunicazione strutturata al loro interno è la linfa che le mantiene coese. Senza ascolto, interpretazione e atteggiamento di cura, l’organizzazione si frammenta. L’IA può contribuire a rendere i flussi più efficienti, ma non può attribuire valore, non può custodire la memoria condivisa, non può generare appartenenza. Sono dimensioni che appartengono esclusivamente alla comunicazione umana, e che oggi diventano ancora più preziose.
Ecco perché, davanti ai rapidi cambiamenti in corso, non basta chiedersi che cosa la tecnologia farà al posto nostro. Bisogna domandarsi che cosa noi umani vogliamo continuare a essere. Perché la verità è che, mentre molte funzioni cambiano, la sostanza resta: la responsabilità verso le persone, la capacità di creare legami, il coraggio di dire parole giuste nei momenti delicati, la cura di relazioni che nessun modello generativo potrà mai sostituire.
L’IA continuerà a evolversi, forse più in fretta di quanto immaginiamo. Ma lo spazio decisivo – dell’incontro, del senso, della comunità – resterà un terreno umano. Ed è lì che si giocherà il nostro futuro: non contro l’intelligenza artificiale, ma accanto ad essa, custodendo ciò che nessuna macchina potrà mai replicare.