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La rivoluzione keynesiana e il consumismo negli Stati Uniti

di Giampietro Parolin

- Fonte: Città Nuova

Dalla crisi del 1929 al boom del dopoguerra, le politiche di pieno impiego e la spesa pubblica hanno trasformato l’economia americana.
Il keynesismo ha alimentato una nuova società dei consumi, in cui il reddito e la domanda guidano la crescita. Oggi, di fronte a nuove sfide economiche e climatiche, il modello appare da ripensare

John Maynard Keynes nel 1933. Foto di autore sconosciuto, di pubblico dominio, tratta da Wikipedia.

Ancora immerso nella grande crisi del 1929, il presidente Franklin Delano Roosevelt incontra nel 1934 l’economista britannico John Maynard Keynes. Alla fine dell’incontro il presidente si confida con il ministro del Lavoro Perkins: «Dovrebbe fare il matematico più che l’economista politico». Da parte sua Keynes rivela in seguito allo stesso ministro che «pensava che il presidente fosse più preparato dal punto di vista economico».

Il seguito fa svanire il disorientamento di quel primo incontro. Dopo diverso tempo e tentativi falliti di rianimare la depressa economia americana, Roosevelt si convince della bontà delle ricette keynesiane, aprendo la strada a quella che sarebbe stata una rivoluzione nelle politiche economiche, abbracciata per mezzo secolo sia dai democratici che dai repubblicani fino all’era di Reagan. L’idea centrale di Keynes, esposta in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936), capovolge la tradizionale Legge di Say secondo cui «l’offerta crea la propria domanda». Keynes sostiene, al contrario, che in periodi di crisi l’insufficiente domanda aggregata sia la radice della disoccupazione e della recessione.

Pertanto l’economista britannico propone che lo Stato intervenga attivamente nell’economia, abbandonando il principio liberista del laissez-faire e, se necessario, attuando una spesa pubblica in deficit. Lo scopo è stimolare la domanda e creare posti di lavoro, innescando il cosiddetto moltiplicatore keynesiano. Questo meccanismo prevede che un aumento della spesa pubblica si traduca in un incremento più che proporzionale del reddito nazionale (il PIL): il denaro speso dal governo per opere pubbliche o sussidi diventa reddito per i lavoratori, che a loro volta lo spendono in beni e servizi, aumentando ulteriormente la domanda e la produzione.

Va detto che sebbene Roosevelt non fosse un keynesiano ante litteram (la sua politica fu pragmatica e precedente alla pubblicazione della Teoria generale), molte delle sue misure – come i programmi di lavori pubblici per riassorbire la disoccupazione di massa, il sostegno ai prezzi agricoli e la stabilizzazione del sistema bancario – incarnano lo spirito dell’intervento statale per sostenere l’economia. Tuttavia, è dopo la Seconda guerra mondiale che le teorie keynesiane si impongono non solo negli Stati Uniti – il cosiddetto «consenso keynesiano» –, con l’obiettivo esplicito di mantenere la piena occupazione e il massimo potere d’acquisto.

La combinazione di piena occupazione, salari in crescita e politiche governative favorevoli apre la strada al boom economico del dopoguerra e alla società dei consumi di massa americana e, più in generale, occidentale. I lavoratori, con maggior potere d’acquisto e fiducia nel futuro, iniziano ad accedere non solo ai beni di sussistenza, ma anche a beni durevoli (automobili, elettrodomestici, case), spesso facilitati da sistemi di vendita a rate e dall’espansione del credito. Il consumo smette di essere una necessità e diviene un indicatore di status e un motore dell’identità sociale, trasformando il cittadino in un consumatore la cui spesa era vitale per la salute economica della nazione.

Il nesso tra keynesismo e consumismo risiede proprio nel successo delle politiche di pieno impiego e di sostegno alla domanda. Creare e mantenere alti livelli di occupazione significa garantire redditi stabili a una vasta porzione della popolazione. Una delle osservazioni chiave di Keynes sulla funzione del consumo è che, all’aumentare del reddito, il consumo aumenta, sebbene in proporzione minore: avendo più reddito disponibile, le persone meno abbienti tendono a destinare una parte dell’aumento di risorse al risparmio.

Pertanto, la redistribuzione del reddito a favore delle classi meno agiate massimizza l’effetto moltiplicativo e l’efficacia delle politiche fiscali. Con l’imporsi della piattaforma keynesiana, la politica americana vede il declino della cittadinanza repubblicana – basata su valori e vincoli morali e comunitari – a favore di una visione del liberalismo che enfatizza la libertà individuale e l’autonomia delle persone. Insomma un secolo fa, alla soglia di un tentativo di riforma del sistema capitalistico, l’arrivo di Keynes ha fatto evaporare quel dibattito proponendo una ricetta che metteva tutti d’accordo: con l’approccio keynesiano, infatti, è possibile «gestire l’economia senza gestire le istituzioni dell’economia», come ha osservato lo storico Brinkley.

«Il consumo […] è l’unico scopo di tutta l’attività economica», così dichiara Keynes nella sua citata Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. Ma oggi, un secolo dopo, nel pieno della poli-crisi economica, climatica, democratica, antropologica, è evidente che il consumo non può essere l’unico scopo di tutta l’attività economica. Come realizzare una nuova rivoluzione, a questo punto necessaria, è però un cantiere ancora molto aperto.

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