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Una crisi mai vista delle relazioni internazionali: intervista a Fabrizio Battistelli

a cura di Carlo Cefaloni

Carlo Cefaloni

Il presidente dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo ha presentato a Bruxelles un dossier sulle vie diplomatiche per porre fine al conflitto in Ucraina, preparato da anni di errori e rimozioni colpevoli. Siamo nel pieno di una fase con poche certezze, che fa rimpiangere gli anni della guerra fredda. La priorità di far rispettare il principio umanitario apertamente violato a Gaza

Vittime palestinesi dei bombardamenti israeliani su Gaza EPA/HAITHAM IMAD

Nella sua intervista a cittanuova.it l’ambasciatore Pasquale Ferrara, che ha terminato da pochi giorni il suo servizio come direttore generale del ministero degli Esteri, ha evidenziato la carenza di volontà politica da parte dell’Unione Europea nel sostenere la via diplomatica per porre fine alla guerra in corso in Ucraina.

Abbiamo perciò sentito Fabrizio Battistelli presidente di Archivio Disarmo che ha recentemente presentato a Roma, e poi a Bruxelles, un rapporto di ricerca commissionato dal gruppo dei Verdi sulle vie diplomatiche alternative alla guerra con riferimento al conflitto russo ucraino. Un analogo studio è in corso di redazione con riferimento al quadrante medio orientale e a Gaza in particolare.

Battistelli è attualmente professore onorario di Sociologia presso l’Università La Sapienza di Roma, dove ha fondato e diretto il dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche. Si occupa di sicurezza interna e internazionale, di gestione dei conflitti, di sociologia dei processi di pace. Armi, nuovo modello di sviluppo? è il titolo di un suo testo fondamentale del 1982 che proponeva una domanda, oggi ancora più inquietante nello scenario internazionale ed europeo.

«Faccio ricerca su questi temi da oltre 40 anni – ci dice – in tanti teatri di conflitto, dalla Somalia alla Bosnia ma devo dire, in verità, di non aver mai visto un livello di barbarie nelle relazioni internazionali come quello attuale».

Nell’intervista a cittanuova.it, l’ambasciatore Ferrara afferma l’infondatezza del detto latino (si vis pacem para bellum) che legittima il riarmo, ma ribadisce il diritto alla difesa armata di una nazione aggredita e quindi la necessità dell’invio di armi all’Ucraina. L’Iriad fa parte del movimento per la pace che dissente su questo punto decisivo. Perché?
Il primo punto da considerare è quello umanitario e cioè il costo enorme che una guerra convenzionale infligge a una società, sottoponendo la popolazione a sforzi inauditi a causa delle decisioni dei governi che vanno dibattute apertamente. Tutti i cittadini hanno il diritto-dovere di intervenire, di partecipare alla discussione sulla guerra e di dare il proprio consenso, così come tutti sono poi chiamati a sostenerne gli sforzi. Come sappiamo anche dai sondaggi, la popolazione italiana è d’accordo nel sanzionare la Russia ma non a partecipare anche indirettamente al conflitto. Finisce così per essere tacciata dai grandi intellettuali e dai grandi giornali di essere opportunista e priva di coraggio, seguendo un logoro stereotipo che affligge gli italiani in modo del tutto ingiusto.

È un dato di fatto che la cultura antropologica degli italiani è diffidente nei confronti della soluzione dei conflitti attraverso la forza. È un principio recepito dalla Costituzione, dove si afferma anche che la difesa della patria è sacro dovere del cittadino. Per questo come Archivio Disarmo cerchiamo di seguire una linea non preconcetta, per dare il giusto peso alle alternative di fronte ai singoli casi.

In che senso?
Voglio dire che non abbiamo una posizione pacifista assoluta, e non pensiamo di poter ricorrere unicamente a mezzi nonviolenti che pure sono non soltanto più che legittimi, ma alle volte anche efficaci. Sono stati efficaci in alcuni frangenti storici, tuttavia non possiamo assolutizzare mettendo sullo stesso piano, con episodi avvenuti durante la Seconda guerra mondiale, esperienze di resistenza nonviolenta avvenute nel Nord Europa, in Paesi come la Norvegia o come l’Olanda. Neppure possiamo fare paragoni con Gandhi e l’imperialismo inglese: è difficile fare questi raffronti perché le differenze sono grandi. Putin non è il re d’Inghilterra che, con tutto il suo imperialismo, comunque condivideva valori di natura costituzionale e liberale e sapeva dentro di sé che la Gran Bretagna non aveva il diritto di occupare l’India.

Il dilemma è lacerante…
Quando la guerra deflagra è tardi. È prima che è necessario e possibile prevenirla. Dopo si può solo fare tutto il possibile per farla cessare. Invece per l’Ucraina abbiamo fatto il contrario. Come singoli Paesi e Unione Europea abbiamo chiuso gli occhi di fronte a un conflitto, quello russo-ucraino, che andava crescendo dal 2014. Ci sono voluti ben 8 anni, un vero e proprio rifiuto, per prendere atto di una situazione che andava degenerando. Questa è una responsabilità grave. Quindi in questo momento credo che dobbiamo dire la verità: siamo di fronte a un dilemma molto serio, perché “darla vinta a Putin”, (per usare un linguaggio colloquiale) crea un pericoloso precedente. Noi siamo a favore di qualunque tipo di intervento diverso dall’invio delle armi, e viceversa ci opponiamo a ogni intervento diretto di soldati europei, tipo coalizioni di “volenterosi” di puri e duri disposti a muoversi senza mandato Onu e al di là della stessa Nato.

Ha citato la Nato. Un vero tabù che papa Bergoglio, da solo, ha sfatato parlando di una strategia dell’Alleanza atlantica che ha condotto al  conflitto che vede il popolo ucraino martoriato, invitando a non ridurre la complessità di una vicenda al racconto semplicistico delle favole. Cosa non vi convince nell’agire della Ue?

Oltre all’invio delle armi, non è stato dato contemporaneamente nessuno spazio a una iniziativa di natura diplomatica seria e reale. Sono stati fatti dei passi in questo campo nel migliore dei casi totalmente ignorati dall’Unione Europea. Ad esempio, il “piano di pace” cinese, intervenuto a circa un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, era molto interessante. Effettivamente non era un vero piano di pace, ma una dichiarazione di principi comunque utili, alcuni dei quali decisamente innovativi. Non solo ribadiva la tutela della sovranità degli Stati, segnando una bella differenza dai russi, ma addirittura ricordava la gravità del rischio nucleare. La Cina lo fa regolarmente, sarà retorica, sarà quello che si vuole, ma è l’unica grande potenza a livello di Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che richiama perennemente questo impegno contro l’uso dell’arma nucleare. Non solo l’uso, quindi, ma anche contro la minaccia dell’uso. In quella proposta c’era la diffida alle parti, non soltanto rispetto a un eventuale primo uso del nucleare, ma anche alla “semplice” minaccia. Questo sarebbe stato un cuneo nella logica di Putin, che aveva cominciato a sbandierare la minaccia nucleare fin dall’inizio. Perché l’Ue non ha neanche preso in considerazione questa presa di posizione a livello diplomatico?

Che valutazione si può dare della proposta di cessate il fuoco fatta fallire in Turchia nell’aprile 2022?
È evidente che con la Russia si dovevano sostenere fin dall’inizio i negoziati di Istanbul, anziché portare dall’esterno una linea dura, che probabilmente ha dato alla delegazione ucraina e a Zelensky un’immagine enfatizzata della situazione, con grandi promesse in nome sia della NATO che di singoli Paesi (Gran Bretagna in testa) di improbabili coinvolgimenti nella guerra. Probabilmente è stato fatto un errore madornale, è stata applicata una strategia del rilancio, laddove a Istanbul le posizioni erano sì rimaste diverse, ma in più punti prevedevano un compromesso. Il New York Times ha pubblicato i verbali di quell’accordo mancato, evidenziando con due colori le divergenze che c’erano. Si doveva continuare a lavorare su quelle divergenze e non far saltare il tavolo ventilando l’imminenza di una vittoria. Eppure, esempi proficui di compromesso tra nemici ne abbiamo avuti in passato.

A cosa si riferisce?
All’approccio dual track adottato dagli Stati Uniti durante la crisi degli Euromissili negli anni ’80, che prevedeva sia un rafforzamento della deterrenza militare che l’apertura di un canale diplomatico. Ne siamo stati testimoni come Archivio Disarmo partecipando alla marcia Palermo-Ginevra organizzata dalle Acli nel 1984. A Ginevra erano iniziati i colloqui sui missili nucleari a medio raggio in Europa tra la delegazione americana e quella sovietica. Nell’immediato i colloqui non approdarono a risultati, ma lasciarono una traccia molto importante quando in uno dei due Paesi, cioè in URSS, cambiò la situazione politica con l’arrivo del nuovo segretario generale del Partito Comunista, Michael Gorbačëv. Una personalità che, in seguito, è stata molto criticata in Russia, ma alla quale a livello planetario dovremmo essere tutti grati. Archivio Disarmo gli conferì la Colomba d’oro, che ricevette a Roma.

Quale fu il merito di Gorbaciov in questo caso?
Gorbačëv disse: «Farò io il primo passo, ritirando i missili SS20 sovietici nell’aspettativa che gli americani facciano lo stesso». In teoria dei giochi si chiama “un passo unilaterale condizionato alla reciprocità”. Risultato: un gioco a somma positiva, un gioco win win dove vincono tutte e due le parti, no? Il contrario del gioco a somma zero dove uno si impone sull’altro, come vuol fare Putin. Ma non è il solo. Trump, nelle sue modalità incomprensibili a una natura equilibrata, cerca anche lui di imporsi e basta. Ciascuno vuole vincere, vuole risolvere la partita con l’avversario schiacciandolo. Questo è completamente sbagliato. Siamo al punto di rimpiangere la diplomazia ai tempi della Guerra fredda. Oggi parlare di controllo degli armamenti come proposto e fatto da Kennedy all’indomani della crisi di Cuba (anche lì sull’orlo dell’apocalisse atomica) appare un’utopia, eppure è accaduto.

Oggi siamo di fronte alla tragedia in atto a Gaza che ci lascia sgomenti. Cosa dovrebbe fare l’Europa e il nostro governo in particolare?
Posto che il conflitto a Gaza è ancora più complicato di quello in Ucraina, la prima cosa che un governo italiano dovrebbe fare è riconoscere lo stato palestinese nella figura dell’attuale Autorità nazionale palestinese. Questo gesto politico costituirebbe un mattone fondamentale per la ricostruzione della legittimità internazionale, che invece rischia di essere irrimediabilmente compromessa, laddove uno stato agisce al di fuori delle regole generali. È il caso del governo di Israele che, anche a prescindere da ogni valutazione politica, sta disconoscendo quotidianamente il diritto internazionale umanitario. Siamo del tutto non credibili – come Italia, Europa, comunità internazionale – se non riusciamo a far entrare cibo e medicinali per distribuirli alla popolazione civile. Sta accadendo invece che gli aiuti arrivino tramite una squadra di mercenari che spara sulla folla in fila per avere una scodella di cibo.  Non è neppure una questione di cessate il fuoco o di processo di pace. La priorità è di natura umanitaria: dobbiamo consentire alle organizzazioni internazionali (Nazioni Unite, Croce Rossa) di fare il loro mestiere, garantendo l’accesso a cibo e medicinali per la popolazione. Ultimo argine di umanità di fronte all’orrore della guerra.

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