Per 648 miliardi di dollari

Ecco la differenza tra importazioni ed esportazioni degli Stati Uniti d’America, dall’anno 2000 ad oggi nei confronti del resto del mondo: riuscirà Trump a diminuirlo? La visita di Xi Jinping in Florida

Se vuoi comprarti un paio di scarpe fabbricate negli Stati Uniti d’America non puoi andare in un semplice negozio e pensare di cavartela con pochi dollari: ce ne vorranno alcune centinaia, da spendere in una super boutique che vende made in Usa autentico. I milioni di paia di scarpe che ogni anno vengono vendute negli stati Uniti arrivano da Cina, Thailandia, Vietnam, Cambogia e da alcuni Paesi del Sud America, oltre che naturalmente da Italia, Francia, Spagna e qualche altro Paese ciabattino (senza disprezzo, ovviamente).

E se si rompno le stringhe delle scarpe, che si fa? Si riesce a trovarne di made in Usa? Nemmeno a pensarci. Altri esempi? Mobili, ceramiche, componentistica di automobili, tende, ventilatori… per non parlare dell’elettronica. Tanti prodotti, se non quasi tutto quello che va sotto il nome di beni di consumo, viene prodotto ormai fuori dagli Usa, iPhone, iPad, iMac compresi.

Gli Usa hanno contribuito indubbiamente anche allo sviluppo di molti altri Paesi distribuendo le loro industrie sulla faccia della terra, ma consumando tanto, troppo. Il modello di consumo a stelle e strisce ha fatto scuola, ma non può essere considerato privo di problemi. Come quello dei 648 miliardi di dollari di debito degli Usa (dal 2000 ad oggi): una cifra da capogiro. Di questi la Cina vanta ben 347 miliardi di crediti nei confronti degli Stati Uniti. Un imprenditore nel campo dell’energia rinnovabile mi faceva presente come le aziende cinesi abbiano così tanta moneta statunitense liquida, da far paura: per questo da anni hanno iniziato a comprare, in varie parti del mondo, vecchie miniere abbandonate, palazzi, terre, ogni cosa possibile pur di “scaricare” dollari dai loro conti e bilanci.

Il 6 aprile Donald Trump incontra il presidente Xi Jinping, in Florida, ed ha promesso «fuoco e fiamme» contro «i disonesti», cioè coloro che «giocano sporco» contro gli Usa. Ma potrà mai fermare le importazioni imponendo il 35% di dazio su tutto quanto si produce in Cina? E da un giorno all’altro? È un azzardo. Significherebbe cioè chiedere ai cittadini Usa di pagare il 35% in più per ogni bene made in China, perché il consumo calerà ma molto poco; e ciò significherebbe cercare nuovi produttori in altri Paesi che siano all’altezza del mercato Usa, che richiede certificazioni su certificazioni, cosa che per le aziende cinesi è del tutto normale assicurare da decenni ormai. Operazioni del genere richiedono mesi se non anni di preparazione.

È probabile che al termine del summit si scatenerà la retorica degli annunci politici, mentre la prassi commerciale richiede ragionevolezza e ponderazione. Anche perché gli investimenti dalla Cina negli Stati Uniti nel 2016 sono stati di ben 53,9 miliardi di dollari, con un aumento del 359% rispetto all’anno precedente: non si tratta di beni di consumo, ma di investimenti che producono posti di lavoro, capitale, redditi e sviluppo.

Già alcuni guai si profilano all’orizzonte: nel 2017, per il controllo dei capitali in uscita dagli Usa, si prevede un forte calo anche degli investimenti in entrata. Le aziende cinesi preferiscono ormai, visto l’andamento della politica Usa, investire in Europa, oppure in Africa, continente affamato di denaro fresco e di infrastrutture. Ma, soprattutto, i cinesi investono in Asia. «Attenzione Mr. Trump: chiudendosi non ci guadagnerai nulla, ma tutti ne perderemo, perché nessuno guadagna stando in una stanza con porte e finestre chiuse», ha detto più o meno il presidente cinese all’ultimo incontro di Davos.

È per questo che Xi Jinping arriva “relativamente” sereno in Florida. Un conto saranno gli annunci sui media, un altro quello che in realtà le due super potenze decideranno.

 

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