2010. Per un Nobel collettivo alle donne africane

Testimonianze da un continente che vuole vivere. Campagna "Nobel Peace Prize for African Women"
Donne africane

Questa la proposta per il 2010 da parte del Cipsi, coordinamento di 42 associazioni di solidarietà e cooperazione internazionale che lancia un appello per raggiungere due milioni di firme. Un riconoscimento non a una singola persona, ma alle donne africane comuni. «Quelle che riescono a organizzarsi per lottare per la pace e a mantenere la vita anche nelle situazioni più tragiche», in un impegno politico spesso capillare e non riconosciuto, con il  rischio di subire violenza e sopraffazione. Proponiamo qui di seguito, dall’ultimo numero della rivista “Solidarietà internazionale”, l’editoriale e una testimonianza sul riscatto umano e sociale di un’immigrata nigeriana in Italia. www.noppaw.org

 

Editoriale di Solidarietà internazionale

 

È piena di taniche gialle l’Africa che cammina. Su strade polverose che solcano la savana o la foresta. Oppure ai cigli delle strade dove, fin dal mattino, piedi veloci e spesso scalzi scansano il passaggio di camion o di automobili. Vanno a prendere l’acqua che servirà alla famiglia per la giornata. E spesso sono decine di chilometri di strada, con sulla testa, appunto, la tanica gialla e sulle spalle un piccolo che dorme.

 

Oppure, si incamminano verso il mercato portandosi sempre sulla testa un cesto di piccole cose. Dovranno cercare lungo la giornata di vendere il loro prodotto, portare a casa il ricavato per nutrire la famiglia, insieme con qualcosa d’altro da rimettere nel cesto la mattina dopo per ricominciare la trafila della sopravvivenza. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana. Non ci sono feste nel calendario di queste donne africane che portano sulle loro spalle il peso di un intero continente. Perché, ormai lo hanno capito tutti, l’Africa cammina sui piedi delle donne. Elisa Kidané, in un passo che troveremo nelle pagine che seguiranno, ci dice che le donne africane sanno innanzitutto resistere. Se l’Africa continua, nonostante tutto, a reggersi in piedi e a riprodurre la vita, è per la forza di queste donne che, silenziosamente, senza fare rumore, spesso senza pretendere nulla, continuano a resistere. In nome della vita. Donne che resistono, dunque. Ma anche donne che tessono. Tessono relazioni.

 

Il mercato africano, fatto quasi tutto da donne, è il luogo tipico dell’incontro, delle relazioni. Qui la vita si vede quasi impressa in una fotografia in continuo movimento. Qui nasce l’Africa che non si arrende. Né di fronte alla povertà. Né di fronte alla guerra. Né di fronte alla morte. Cocciute, in una sorta di patto costitutivo con la vita, sono le donne che sanno andare oltre, sempre oltre, per dare speranza in un futuro umano per i loro figli. Un rapporto, quello delle mamme africane con i loro figli, fatto di contatto fisico, pelle a pelle. In ogni momento: quando camminano, quando lavorano, quando cucinano, quando sono al mercato. Un rapporto che dà sicurezza e permette ai bambini, quando saranno grandi, di camminare dritti sulle loro gambe. In Africa sono le donne che reggono l’economia.

 

Dal lavoro dei campi, fino alla creazione di piccole imprese che ancora una volta garantiscono la sopravvivenza. Non andrà mai alla deriva l’economia africana, fino a quando le donne vi saranno impegnate in prima persona. Sono falliti e probabilmente continueranno a fallire i grandi piani economici delle multinazionali, oppure i piani di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale. Non fallirà mai invece l’economia dei piccoli gruppi di donne che quotizzano ogni settimana la loro parte di microcredito registrata sui piccoli libretti spesso nascosti sotto le scatole di latta dei banchi del mercato. Gli stessi africani maschi riconoscono che una somma di denaro data in mano ad una donna frutta non solo per la famiglia, ma per tutto il villaggio. Ancora una volta torna il tema della vita.

 

L’economia al femminile, proprio per questo suo legame con la vita, smette di essere una scienza barbosa, fatta di numeri e di operazioni sofistiche. Diviene invece fatto vitale, non accademico. Per questo, se ci si vuole mettere al fianco dell’Africa che cammina, occorre mettersi al fianco delle donne di questo continente, farsi prendere per mano da loro. Perché hanno il senso innato della vita. Sanno come e da che parte condurre quell’intero continente che da sempre portano non solo nel cuore, ma sulle spalle. Noi crediamo che questa Africa che cammina meriti un riconoscimento. Anche il premio Nobel per la pace.

 

Dovevo vendere frutta e verdura

La tratta tra “maman” e riti magici

 

Isoke Aikpitanyi, trent’anni, nigeriana, nata a Benin City, vive ad Aosta dal 2003. Sono arrivate in tante da Benin City. Con il miraggio di un lavoro. Con la voglia di riscattarsi e di portare un aiuto alla loro famiglia. Ingannate da chi della tratta fa business, si sono trovate sulle strade del nostro paese a vendere il loro corpo. Isoke ce l’ha fatta. Ma tante altre sono rimaste intrappolate in una ragnatela da cui pare impassibile uscire. Molte, oltre 200 nel nostro paese, sono state uccise perchè hanno tentato di fuggire.

 

Isoke, hai alle spalle un passato difficile.

 La mia lotta contro l’obbligo di prostituirmi è passata attraverso sofferenze e violenze. Quando ne sono finalmente uscita, sono stata quasi uccisa. Per questo ho deciso di dedicarmi, volontariamente e senza compensi, al sostegno di tante donne: ho fondato un’associazione di vittime ed ex vittime della tratta, per dar loro voce e per essere la loro voce. Ho scritto un libro, partecipo ad eventi e manifestazioni per difendere i loro diritti e parlare dei loro drammi. In Nigeria l’organizzazione della rete criminale e del racket nigeriano presenta caratteristiche particolari sia nei modelli coercitivi usati per costringere le ragazze a prostituirsi, sia per le forme di reclutamento e per le figure che ruotano attorno alla tratta.

È infatti possibile delineare tre livelli organizzativi: il reclutamento che avviene attraverso la figura dello sponsor, la tratta vera e propria che avviene attraverso i mediatori e infine lo sfruttamento da parte delle maman. Una volta arrivate in Italia, le ragazze vengono consegnate alla maman che le priva dei documenti e degli effetti personali. Offre loro un posto in cui vivere (posto che dovranno pagare), una sorta di preparazione al lavoro che dovranno svolgere oltre ad adoperarsi a subordinare le ragazze anche attraverso rituali magici affinché il loro grado di soggezione sia sufficiente ad assicurarsi la loro obbedienza. La maman, spesso è stata a sua volta prostituta e dopo essersi riscattata dal debito ha iniziato la “carriera” di sfruttatrice controllando il lavoro di piccoli gruppi di ragazze (massimo cinque), che consegnano a lei tutti i guadagni fino all’estinzione del debito, dopodichè riacquistano la propria libertà personale.

 

Che vita conducevi prima di venire in Italia? Cosa farai quando rientrerai in Nigeria?

Nel mio paese conducevo una vita semplice e povera aiutando mia madre al mercato; lasciai presto gli studi perché mia madre non poteva mantenere da sola nove figli. Così, decisi di cercar fortuna sperando di poterla supportare. Presto tornerò nel mio paese per spiegare alle ragazze che dietro al sogno di un viaggio in Europa c’è solo violenza, schiavitù, prostituzione. Sono diventata un’operatrice, non voglio definirmi una mediatrice. So che incontrerò problemi nel mio paese per svolgere questa missione, ne incontro molti anche qui, in questa Italia che non sa liberarsi del tutto dal razzismo.

 

Cosa sta cambiando tra le ragazze del tuo paese?

 Sta cambiando la mentalità. Le giovani africane credono un po’ meno alle storie del voodoo che spesso le soggioga e stanno imparando che le maman non sono delle amiche, ma sono le loro prime sfruttatrici. Cambia tra le ragazze la percezione della legalità alla quale bisogna ricorrere, anche se le leggi sono ostili e spesso inefficaci. Ora sto collaborando anche per un’organizzazione internazionale della comunità edo-bini (le tribù dell’Edo State di cui Benin City è capitale), quindi la mia lotta contro la tratta sta prendendo piede, ed è la lotta delle vittime che cominciano a dire basta.

 

Come è stata considerata la tua scelta? Chi ti ha appoggiata e chi ti ha ostacolata?

 All’inizio pochi hanno creduto in me, ero solo una ragazza uscita dalla prostituzione che denunciava come non si stesse facendo abbastanza per le vittime della tratta nei paesi di provenienza e nei paesi di arrivo. Le stesse organizzazioni accreditate per sostenere le vittime della tratta non riescono a fare molto, avvicinano solo una donna su dieci. Molte donne pensano che non ci si impegni abbastanza per aiutarle, e talvolta mi considerano anche colpevole. Quel che si fa è troppo poco… Mi hanno ostacolata soprattutto i giri delle maman e dei trafficanti: sono stata minacciata, al mio compagno è stata rovinata l’auto ed è stato malmenato da energumeni. Mi hanno ostacolato le leggi, che non prevedono in nessun modo che una persona possa intervenire direttamente a sostegno di altre persone. Oggi anche i miei parenti in Africa mi mettono in guardia nel non tornare se non con una scorta: di solito questo consiglio lo si da ai bianchi, evidentemente ho dato fastidio ai trafficanti ed è esattamente quel che desideravo fare. Mi hanno appoggiata soprattutto gruppi di donne e di uomini che stanno riflettendo sulle responsabilità maschili rispetto alle violenze sulle donne. Mi hanno appoggiata molti media e alcune associazioni ma, soprattutto, tante ragazze vittime della tratta.

 

Tu ce l’hai fatta. Ma altre, tante altre ancora…

 Ho raggiunto un risultato: difendere la dignità delle giovani donne costrette a prostituirsi, spiegando che la tratta è una cosa diversa dalla prostituzione. Purtroppo devo lottare ogni giorno, e ogni giorno affronto drammi e violenze. Oltre 200 nigeriane sono state uccise in Italia negli ultimi quattro anni. L’ultima è stata una minorenne che si rifiutava di prostituirsi ed è stata massacrata. Una viloenza inaudita. Aveva brandelli di carne che le cadevano dalle braccia, nella casa dove viveva la polizia ha trovato, con il Luminol, tracce del suo sangue ovunque, le hanno perfino fatto lo scalpo. I media ne parlano poco, io cerco di fare in modo che si sentano costretti a farlo. Così come è avvenuto per un viaggio di 600 disperati, partiti dalle coste africane a fine marzo e annegati tutti nel silenzio dei media e in quello delle coscienze. L’obiettivo che ho raggiunto è portare nella realtà italiana ed europea almeno un po’ della voce delle vittime della tratta.

 

Hai detto che tornerai nel tuo paese. Cosa ti aspetti che cambi?

Il mio non è un paese povero: la Nigeria dovrebbe essere una potenza mondiale e, invece, la gente non tira avanti; la corruzione governa e quelli che una volta erano valori di una società antica e dignitosa sono diventati l’alibi per una corsa al business, per imitare gli inglesi colonialisti e gli americani. La donna è quella che porta avanti il peso della famiglia e dell’intera società: è una donna nigeriana ad aver combattuto i trafficanti di medicine false e mortali, sono donne a portare avanti progetti contro la tratta. Le donne non hanno diritti, come la mia povera mamma che sopportò la poligamia di mio padre e ne pagò le conseguenze, finendo col morire giovanissima, di fatica e malattia. Eppure, dico io, quando lei è morta ho sentito che dovevo ricordare la lezione di dignità che mi aveva dato e anche se i trafficanti avevano cercato di sottomettermi e annullarmi, ho alzato la testa, ho preso voce e sono diventata una donna di cui forse mia mamma sarebbe orgogliosa. La donna africana è la continuità del meglio dell’Africa.

E quando finirà il business e l’abbrutimento, anche le donne che diventano sfruttatrici, le maman, scompariranno. Questo cambiamento può avvenire in un solo modo: tutte le donne devono alzare la testa e la voce, prendere il ruolo che compete loro nella società, contribuire a crescere i maschi con una nuova e diversa mentalità di genere e recuperare quel rapporto con la vita spirituale che è stato tradito dal materialismo. Oggi tante chiese cristiane, tante sette cristiane, purtroppo apparentemente legate ai pentecostali, usano la fede per gestire il traffico di esseri umani e quant’altro.

 

 

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