1+1+1=Squadra

Con le arti Marziali per imparare a fare parte di un gruppo, di una coppia, di una famiglia, di un team di lavoro. Raccontando storie realmente vissute. A Serra Riccò, nell'immediato entroterra genovese. Intervista a Roberto Ferrigno, maestro di Karate
argentina

«Ciascuno di noi sente il bisogno di relazionarsi e di aggregarsi agli altri, di far parte di un gruppo, di una coppia, di una famiglia, di un team di lavoro, di qualcosa di più grande del singolo. Il senso di appartenenza è ciò che permette ad un gruppo di formarsi e di svilupparsi, e all'individuo di crescere interagendo con gli altri e condividendo esperienze. Ma c’è differenza tra il far parte di un gruppo di persone e far parte invece di una squadra. Dieci persone in coda alla cassa di un supermercato, in fondo, hanno tutte lo stesso scopo, quello di pagare la merce e uscire, ma non sono una squadra. Spesso ci si trova a far parte di un gruppo, anche strutturato, ma ugualmente non sentiamo di far parte di una squadra…»

Serra Riccò, immediato entroterra genovese. Roberto Ferrigno, maestro di Karate, va “in scena” in prima serata, non su un tatami ma su un palco di un piccolo teatro di paese, con le sue storie di sport vissuto come educazione nella crescita e nello sviluppo della personalità. “1+1+1=Squadra” è il titolo dell’evento, che porta come sottotitolo “Storie di Sport e modelli educativi”.

E qui, questa sera, con Roberto proveremo a domandarci cosa è veramente una squadra e a capire cosa ci sta dietro, evidenziando alcuni aspetti fondamentali dei modelli educativi che, stando alle tesi di Roberto, ne sorreggono l’impianto. Roberto lo fa con un linguaggio alla portata di tutti (ce ne sono parecchi dei suoi giovanissimi allievi in platea) ed utilizzando il metodo più efficace: il racconto di storie realmente vissute.

La prima storia ha per titolo “L’allenatore dallo sguardo infuocato”, racconta di un episodio della vita di un giovane Ernesto “Che” Guevara alle prese con una sgangherata squadra di calcio, nella quale riesce ad iniettare fiducia e orgoglio. La seconda storia ha per titolo “La Terza Onda" e racconta di uno strampalato quanto pericoloso esperimento didattico condotto da un professore di liceo che vuole far capire ai suoi studenti come sia facile farsi prendere da falsi idealismi. Il terzo racconto ha per titolo “Il sogno delle Antilopi” e racconta la storia di Nelson Mandela e della finale dei Campionati del Mondo di rugby del 1995 fra la squadra del Sud Africa denominata “Springboks”, cioè le “antilopi” e i temutissimi neozelandesi “All Blacks”. Infine, per chiudere, “La favolosa squadra di Francesco e Alex”: Alex (Zanardi) ex pilota di formula1 rimasto senza uso delle gambe dopo un incidente, Francesco è un diplomato di educazione fisica affetto da SLA, insieme creano una squadra sui generis che riesce ad esprimere sportività e voglia di riscatto senza paragoni.

A fare da sfondo sul palco c’è anche Andrea, che chitarra alla mano crea un tessuto musicale, un fraseggio, un contrappunto, per dare risalto alla narrazione, mentre sullo schermo scorrono le immagini dei protagonisti dei racconti. Anche Roberto e Andrea in questo momento sono una squadra, il pubblico se ne accorge, “entra” nei racconti….

Quattro storie di rapporti, di squadre: Roberto qual è, secondo te, il valore aggiunto delle persone che fanno parte di una squadra, a differenza di chi fa parte del gruppo?

«La squadra, per riprendere la definizione che ne dà Ernesto Guevara, è un organismo vivente, formato da cellule che ne compongono la struttura ed interagendo tra loro fanno sì che l'organismo respiri, si nutra, viva. Questo è un po' il senso ultimo del concetto di squadra, che delineano tutte le storie che stasera abbiamo raccontato: gli individui che fanno parte di una squadra mettono il proprio talento e le proprie energie vitali al servizio di questo organismo. Mentre chi fa parte di un gruppo si limita a prendere, il membro di una squadra sente il bisogno di dare e condividere. E alla fine, ciò che riceve in cambio è infinitamente più di quanto ha investito».

La persona, qualunque essa sia, hanno quindi maggiori possibilità di maturazione umana in una squadra?

«Nel finale abbiamo usato la parola “Ubuntu” che racchiude il senso della relazione tra l’individuo e la squadra. Come ha detto Nelson Mandela: «Ubuntu non significa non pensare a se stessi; significa piuttosto porsi la domanda: voglio aiutare la comunità che mi sta intorno a migliorare?» Se sei davvero dentro una squadra senti di far parte di un “progetto” che è più grande di te, ma che senza di te non potrebbe sopravvivere. Questo ti dà una grande carica oltre che ovviamente investirti di una grande responsabilità. E la responsabilità unita all’energia positiva del costruire insieme agli altri, fanno maturare in maniera molto rapida».

Cosa vi proponevate come messaggio da veicolare al pubblico?

«Come ormai da sette anni a questa parte, questi appuntamenti rappresentano per noi un momento di approfondimento di alcuni temi cruciali che riguardano lo sport e l’educazione dei ragazzi. L’obiettivo è quello di far passare con un linguaggio diverso, sfruttando appunto la parola, le immagini, la musica, gli stessi significati che ci proponiamo di far filtrare durante gli allenamenti, nel Dojo (ndr: la sala dove si praticano le arti marziali giapponesi), sul campo di gara o anche durante un campo estivo. La parole chiave sono collaborazione, dialogo, rispetto, sogni, impegno, sacrificio, gioia, mettersi al servizio, che sono alla base dell’idea stessa di squadra».

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