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Cultura > Parole e luoghi della democrazia 9

La nascita del populismo

di Giampietro Parolin

- Fonte: Città Nuova

È il piccolo piccolo borgo della Pennsylvania il luogo di nascita del populismo che ha assunto caratteri opposti all’inclusività, diventando presto un meccanismo di disgregazione sociale e di polarizzazione

Murale di Elihu Vedder con la famosa frase detta da Lincoln, foto pubblico dominio – Library of Congress, Prints & Photographs Division

Nella sua ampia biodiversità costituzionale e istituzionale la democrazia vive di apparenti paradossi. Ed è così che, dopo aver faticosamente conquistato spazi di rappresentanza, come nel Parlamento di Torino del 1848, propone nella sua storia una grammatica ed una prassi che sembrano negarli.

È il caso del populismo, che propugna una democrazia diretta senza rappresentanti, senza élite e corpi intermedi che facciano da filtro fra il popolo e chi esercita il potere esecutivo. Si potrebbe pensare che il populismo sia un fenomeno recente, degli ultimi trent’anni, ma la storia racconta che esiste dal oltre un secolo e mezzo. Se ne trovano le radici risalendo al contesto della guerra civile americana, alle narrazioni letterarie e di film iconici come “Via col vento”.

È Gettysburg, piccolo borgo della Pennsylvania, il luogo di nascita del populismo. Lì, il 19 novembre del 1863, Abraham Lincoln, allora presidente degli Stati Uniti, si reca per commemorare i morti della sanguinosa guerra di secessione – fra gli stati del nord e quelli del sud – che la sua stessa candidatura aveva innescato e che proprio nella conclusiva battaglia di Gettysburg, lasciando sul campo ottomila persone, aveva sancito la vittoria dei nordisti.

Lincoln pronuncia un discorso estremamente breve, solo 1.450 battute, ma altrettanto denso di contenuti. Ricostruisce dapprima la storia: “Or sono sedici lustri e sette anni che i nostri avi costruirono su questo continente una nuova nazione, concepita nella Libertà e votata al principio che tutti gli uomini sono stati creati uguali”, riferendosi al periodo intercorso dalla Dichiarazione d’Indipendenza, che ha fondato gli Stati Uniti il 4 luglio del 1776, e richiamando i principi di libertà ed uguaglianza.

Poi, dopo aver onorato i morti, cerca di unire il Paese attorno ad un progetto di rinascita, concludendo con le tre frasi che sarebbero diventate il mantra dei populisti: «Sta piuttosto a noi il votarci qui al grande compito che ci è dinnanzi: che da questi morti onorati ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero, della devozione, l’ultima piena misura; che noi qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano; che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra».

Lincoln si spende, a prezzo della vita, per una concezione profondamente ampia e inclusiva dell’esperienza di “popolo”, in cui hanno posto anche gli schiavi e gli americani di tutte le origini. Promuove The Emancipation Proclamation nel gennaio 1863, ovvero l’ordine esecutivo di abolizione della schiavitù negli stati sudisti, che ne avrebbe portato poi all’abolizione costituzionale nel 1865.

Ma questa idea di inclusività di Lincoln trova ostacoli immediati e di lungo periodo nella storia americana: per esempio in Massachusetts vengono presto introdotti i literacy tests (test di alfabetizzazione) con l’obiettivo di escludere dal voto gli immigrati irlandesi – cattolici e poveri – e i neri.

Ciò che più interpella la storia è il fatto che il populismo ha assunto caratteri opposti all’inclusività, diventando presto un meccanismo di protesta antisistema, di disgregazione sociale, oggi si direbbe di polarizzazione.

Lo testimonia la nascita del People’s Party (Partito del popolo) intorno al 1890, con caratteristiche simili agli odierni partiti populisti. È infatti la risposta all’impoverimento dei contadini americani in seguito alla cosiddetta prima globalizzazione, combinata con il monopolio dei trasporti ferroviari.

Questo partito ebbe vita breve ma l’impatto culturale arriva fino a noi. Tant’è che il populismo riemerge fortissimo con la seconda globalizzazione, un secolo più tardi, ai tempi delle delocalizzazioni e della rust belt – la “cintura della ruggine” – ovvero la regione fra gli Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi, un tempo culla dell’industria pesante americana, ora praticamente dismessa.

Il clima in cui si sviluppa la cultura populista contemporanea è ben descritto dalla settima arte: “Elegia americana” film tratto dal libro di J.D. Vance – attuale vicepresidente degli Stati Uniti – racconta proprio quell’America lasciata indietro.

Certamente l’esclusione sociale è una delle cause del populismo, ma non le esaurisce. Sono tante le forme di populismo, spesso incrociate con leadership carismatiche, e rispondono a diversi bisogni: securitari, identitari, di efficienza amministrativa.

Nel nome del “popolo” si risponde a pezzi di popolo, facendo emergere un’evidente contraddizione. Da Gettysbug rimane aperta una domanda fondamentale sul rapporto fra populismo e democrazia, ovvero se si tratti di un sintomo nei processi democratici o piuttosto dell’«estremo limite della democrazia costituzionale, oltre il quale i regimi dittatoriali sono pronti a emergere», come sostiene la politologa Nadia Urbinati.

Non dimentichiamo infatti che la democrazia nasce sin dalle origini come sistema per limitare il potere assoluto e che i meccanismi di rappresentanza hanno avuto lo scopo di includere i diversi strati sociali. E proprio sul rapporto fra democrazia rappresentativa e populismo si gioca la sfida del presente e del futuro prossimo.

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