“Le Supplici” di Moni Ovadia, in cerca d’asilo

Un momento dello spettacolo

Le Supplici, una delle sette tragedie di Eschilo giunte più o meno integre sino a noi, scritta 2500 anni fa, è il testo di apertura di una trilogia che proseguiva con Gli Egizi e si concludeva con Le Danaidi. Narra della fuga in Grecia, delle 50 figlie di Danao, insieme al loro padre, per sottrarsi all’insidia dei loro cugini figli di Egitto che vorrebbero costringerle alle nozze; e dell’arrivo nella terra degli Argivi,popolo democratico e accogliente. Dato che esse reclamano un’origine ellenica, chiedono al re di Argo, Pelasgo, accoglienza. Ma questi paventando incombenti rappresaglie con il timore di scatenare una guerra contro l’Egitto, esita a concedere loro protezione. Deciderà solo con il consenso della comunità. Considerando l’incertezza un segno di respingimento, le Danaidi dichiarano che in caso di rifiuto si impiccheranno nel recinto sacro lanciando una maledizione. Nel frattempo che la popolazione ha deliberato all’unanimità di accoglierle, offrendo loro asilo rifugio e protezione, giunge l’araldo degli egizi che cerca di portarle via con la forza. Ma il risoluto intervento di Pelasgo lo impedisce decretando in tal modo l’inevitabile guerra.

Allo sguardo di oggi balzano evidenti motivi di perdurante attualità: conflitti interetnici, sradicamenti ed esili, accoglienza o rifiuto dell’altro, il perdurante conflitto tra nazioni, tensione tra i sessi. La storia delle incompatibilità si ripete. Ed è questa attualità, e necessità, a muovere Moni Ovadia nella sua messinscena della tragedia che ha aperto il aperto il 51° ciclo di spettacoli classici dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico al Teatro Greco di Siracusa.Sulla bianca scena di sabbia con un grande arco d’ingresso sul quale si intravedono immagini raffiguranti una moltitudine di persone – volti anonimi, di scomparsi, di gente senza nome, forse mai giunta a destinazione perché naufragata – il regista e attore fa de Le Supplici una sorta di musical di grande spettacolarità, con canti, musiche dal vivo e coreografie (troppe), e una traduzione in dialetto siciliano con frammenti di greco moderno e qualche breve passaggio in italiano, affidandone la narrazione alla figura di un antico cantastorie popolare – che ha la voce e il volto di Mario Incudine -, il quale giunge in bicicletta e  appare in più momenti a collegare il racconto. E conclude indicando un gruppo di immigrati seduti tra il pubblicosulla battuta finale "Sono Eschilo e sono siciliano e questi sono gli amici miei". Un inserimento, a mio avviso, pleonastico, in nome di una contemporaneità di cui non si sentiva il bisogno rafforzativo.

A parte questo, l’inusuale rivisitazione pop di Ovadia, pur apprezzabile nell’insieme, lascia un po’ perplessi perché rischia di far disperdere la forza e il pensiero profondo delle parole di Eschilo, il ragionamento dialetticoche vi sottostà. Nel folto gruppo di donne dai costumi e trucchi africani, con movenze da danza Maori, spicca come prima corifea una persuasiva Donatella Finocchiaro.

Al teatro greco di Siracusa, in scena, a sere alterne con le altre due tragedia “Medea” di Seneca e “Ifigenia in Aulide” di Euripide, fino al 28 giugno.

 

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