Aylan e la morte della politica

La foto del bambino morto sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, scuote le coscienze, ma perché non ci si indigna allo stesso modo davanti ad altri bambini, morti o sofferenti, come Alì, bruciato vivo nella sua casa, o il ragazzino palestinese bloccato da un militare? E cosa fanno i governi davanti a tanto orrore? Una riflessione
Aylan
Ieri mattina, in prima pagina, sulla Stampa è stata pubblicata la foto di Aylan, un bambino siriano sulla spiaggia della Turchia ucciso dal disinteresse del mondo. Il direttore Calabresi giustifica questa scelta drammatica sottolineando l'importanza che l’Europa e il mondo non si voltino da un’altra parte…

 

 

Siamo consapevoli che il meccanismo mediatico funziona così. Tanto più l’immagine è forte, tanto più la reazione è sicura. In fondo i treni di Budapest e il tir in Austria hanno cambiato la cultura e il dibattito politico sull'immigrazione e sui rifugiati.

 

 

La cancelliera Merkel appena un mese fa diceva ad una ragazzina palestinese che non si può accogliere tutti. Oggi di fronte  dalle immagini che arrivano dall’Austria, dall’Ungheria, dalla Grecia, dalla repubblica Ceca, ha cambiato radicalmente prospettiva e annuncia di voler accogliere tutti i siriani. Oggi al centro della discussione non ci sono più i barconi e gli scafisti, ma i treni e le piazze del’Europa, dove per lo meno la gente non muore e dove anche la discussione pubblica, pur tra mille difficoltà e contraddizioni, comincia a uscire da una subalternità nei confronti dei populismi.

 

 

Ma il bimbo siriano sul mare della Turchia rinvia ai bimbi di Aleppo, di Gaza, di Tripoli, della Cisgiordania, ai bimbi violati nelle guerre del Centrafrica. Non abbiamo bisogno di vedere i bimbi uccisi per sapere che molti bimbi vengono uccisi. Bisogna vedere prima, non dopo. Bisogna anticipare e prevenire gli eventi. È parere condiviso che i rifugiati di questi giorni sono figli della guerra: della guerra in Siria e della guerra in Libia. Anche Aylan, il bimbo morto sul mare è figlio di questa guerre? Cosa abbiamo fatto per evitare la guerra? Nulla. Cosa abbiamo fatto per superare il conflitto, per trovarvi soluzioni in questi quattro anni? Nulla. Basti ricordare l’inerzia delle trattative sulla Libia, i veti contrapposto, gli interessi che configgono e imprigionano il dialogo.

 

 

È davvero impossibile, come sembra, risolvere il conflitto con l’Isis? Chi vende le armi e la logistica di cui dispone questa organizzazione terroristica? Chi le vende e chi le compra? Con quali finanziamenti e relazioni? Si parla di un esercito di trentamila persone, non di tre milioni o di trenta milioni… È davvero così onnipotente, come viene narrato, oppure è uno strumento terribile di una terribile guerra per procura? Eppure tutto è in stallo. L’Italia ha fatto davvero tutto il possibile e l’impossibile per fare la pace in Libia, che per la sua collocazione geostrategica e per gli interessi comuni ha nel nostro Paese il suo primo interlocutore politico ed economico? La nostra iniziativa diplomatica ha fatto tutti i passi necessari? Sicuramente no. Perché non si chiede la sostituzione dell’attuale delegato delle Nazioni Unite con un delegato italiano di maggiore peso politico e di più estese e riconosciute relazioni?

 

 

Perché guardiamo la Libia da spettatori e non siamo davvero attori diplomatici, economici e politici? In gioco c’è tutta la partita del Medio Oriente, con al centro la questione israelo/palestinese. Abbiamo visto un bambino palestinese aggredito da un soldato israeliano, che lo stringe al collo. Una ventina di giorni fa a Nablus fanatici israeliani hanno incendiato Alì, bambino palestinese, e quanti bambini palestinesi a Gaza  muoiono perché non sono curati, perché le cure costano troppo E noi ci siamo girati dall’altra parte, sempre dalla parte sbagliata.

 

 

Non si tratta di guardare i bambini morti, in modo che suscitino pietà e spingano a comportamenti responsabili, ma di guardare il conflitto con gli occhi delle vittime, con il loro cuore, con i loro desideri di pace e di futuro. C’è più politica e più visione nella storia di Alì e di Aylan che in tutti gli editoriali di un giornale, che in tutte le politiche di un governo, di un cancelliere, di un primo ministro, di un presidente del consiglio.

 

 

Qui la politica diventa grande, perché ascolta i piccoli. Non l’emozione, ma la visione, non il passato,ma il futuro. Non il sentimento, ma la sapienza, non il potere, ma le vittime. È venuto il tempo di un nuovo magistero delle vittime. La politica si deve inginocchiare di fronte ad Aylan, come di fronte ad Alì e a tutti coloro che vivono e muoiono lo stesso tempo, e chiedere perdono. Pentirsi di tutti gli opportunismi, dei grandi interessi militari, strategici e finanziari e ricominciare con il passo disarmato delle vittime.

 

 

Non occorre una fotografia in prima pagina per scuotere le coscienze, perché gia sappiamo. Il vangelo ci ricorda che il primo sangue versato è quello della strage degli innocenti. A noi tocca andare casa per casa per avvisare che il potere violento sta arrivando a uccidere i nostri figli e per preparare il loro futuro di felicità. Ecco la politica che previene, che anticipa, che diventa sentinella del futuro e intravede il sentiero della pace che unisce i paesi e le culture e non li divide.

 

(Nella foto Ansa, il piccolo Aylan quando era ancora in vita, insieme al fratellino di 5 anni, anche lui morto, insieme alla loro madre, durante la traversata)

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