Luca Bronzini, trentino Fiavè, è balzato all’onore della cronaca nazionale il 3 febbraio 2024, quando ha parlato alla cerimonia di inaugurazione di “Trento – Capitale europea e italiana del Volontariato 2024”, alla presenza del presidente Sergio Mattarella. Le sue parole hanno sintetizzato i valori cardine del volontariato moderno, ed hanno avuto vasta eco sui media. Lo incontriamo per approfondire con lui questa tematica.

Luca Bronzini
Partiamo dal tuo intervento a Trento. Come ci sei arrivato?
Tutto nasce dal lavoro della scuola Penny Wirton di Trento [scuola rivolta ai migranti, ndr], partita nel 2018. È un percorso che ha coinvolto, in questi anni, tanti volontari e migranti. Quando si è trattato di organizzare la cerimonia di apertura, è stato proprio Mattarella a chiedere che si ascoltassero le voci dei volontari. Tramite le reti associative è uscito il mio nome, con l’input di rappresentare il mondo, molto variegato, del volontariato che si occupa di accoglienza e l’inclusione. Abbiamo collaborato con altre realtà esperte, come il Centro Astalli, il Punto d’Incontro, la Residenza Fersina… Avevamo 80 secondi per parlare: ho scelto di usarli per dire quello che vediamo, che sentiamo, e quello che auspichiamo.
E come sei arrivato alla Penny Wirton? Non sei un insegnante, né un linguista…
Una decina d’anni fa ho deciso di mettere a disposizione per attività di volontariato una mezza giornata della settimana. Parlando con un amico della casa editrice Il Margine ho dato la mia disponibilità, pensando di andar lì a riempire pacchi di libri, occuparmi delle spedizioni. Invece lui mi disse: “Abbiamo un sogno nel cassetto”. Avevano pubblicato il primo libro della scuola Penny Wirton nel 2012 e volevano aprire una sede anche a Trento. Mi proposero di occuparmene. Ho incontrato i fondatori Eraldo Affinati e Anna Luce Lenzi, visitato una scuola a Milano, trovato subito persone pronte a mettersi in gioco. È partito tutto in modo semplice, ma ha preso piede in fretta: evidentemente rispondeva a un bisogno reale.
La vostra scuola prevede un volontario per ogni studente. Funziona davvero così?
Sì, è il nostro punto di forza. Lavoriamo uno a uno. Si parte sempre dal livello e dalla storia della singola persona. Il mondo dei migranti è estremamente vario: ci sono diplomati e analfabeti, cinquantenni che non vanno a scuola da 40 anni, chi ha bisogno dell’italiano per lavorare, chi può permettersi tempi più lenti, chi viene dal Pakistan e chi dall’Africa subsahariana. Quindi il metterli in classi con percorsi temporalizzati e collettivi sarebbe sicuramente meno efficace. È una scuola destrutturata: nessun obbligo di frequenza, nessun attestato. Chi viene lo fa perché lo vuole. C’è una fatica reale, ma anche una motivazione autentica.
Come sostenete economicamente la scuola?
La sede è in subcomodato gratuito. Le spese che ci troviamo ad affrontare sono le bollette, libri, ad ognuno diamo un quaderno e una penna, ci siamo procurati una fotocopiatrice e un proiettore. Come associazione, ci autofinanziamo attraverso il tesseramento, le donazioni e progetti insieme ad altre associazioni.
Come vivono queste persone l’arrivo in Italia, l’approccio con la lingua, l’accoglienza (o la non accoglienza)?
Arrivano con la forza e la voglia di giocarsi una nuova vita, non certo per dormire sotto i ponti. È questa speranza che motiva anche noi volontari. Ma nel tempo le difficoltà e la precarietà logorano. Molti arrivano dalla rotta balcanica, dopo uno o due anni di cammino, violenze, mafie, freddo, fame. Poi dormono in strada, sotto i ponti, estate e inverno. Questa marginalità appesantisce le persone, produce stress, patologie anche psichiche, e a volte violenza, significa materialmente anche un carico sanitario che finisce sulla groppa degli operatori pubblici… Ma vediamo anche storie di riscatto, di chi ce la fa, chi si inserisce nei progetti di accoglienza e nei percorsi lavorativi con soddisfazione. Ma non è facile. L’accoglienza non può essere una questione ideologica, va vista come un investimento sociale e umano.
Come percepisce tutto questo la gente comune?
L’immigrazione è un fatto reale, che piaccia o non ci piaccia. Dovrebbe essere gestito sulla base di analisi statistiche, di numeri… spesso invece è gestito con la pancia, col populismo, con la demagogia. Pensare di risolvere tutto con i respingimenti o i muri è miope. Poi c’è un aspetto più pragmatico: noi siamo una civiltà – specialmente nelle montagne – che sta invecchiando, abbiamo tremendo bisogno di persone nuove, di giovani. Un decimo della popolazione trentina, come quella italiana, è già costituita da stranieri. Qui nel nostro piccolo paese, di 1.100 abitanti, se non ci fossero gli stranieri sarebbero chiuse la scuola elementare, l’asilo, non ci sarebbero squadre di calcio… Accogliere bene oggi è un investimento sul futuro. Le persone ricordano come sono state trattate. E lo trasmetteranno ai figli.
Sei anche consigliere comunale. Come mai questa scelta?
A 40 anni sono tornato a vivere a Fiavè, un po’ per piacere, un po’ anche per sfida, volevo dare il mio contributo soprattutto ai giovani. Si è formato un gruppo variegato e motivato e ho scelto di mettermi in gioco. Con l’assessora alla cultura Maria Pia Calza, abbiamo attivato anche in paese una scuola d’italiano.