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Voglio fare della mia vita un dono

di Oreste Paliotti

«L’avventura di Elio. Prima con i gen, poi in focolare. La malattia e la lettera ai genitori»

Elio Cimmaruta
Elio Cimmaruta. Illustrazione di Marta Signori

Elio Cimmaruta nasce ad Afragola (Na) nel 1952, decimo di 7 fratelli e 4 sorelle. Il padre è operaio. Come premio per aver superato gli esami di scuola media regala ad Elio una macchina fotografica. Sua madre è una donna semplice, ma di intelligenza straordinaria e grande fede.

Per alcuni anni Elio frequenta il Terz’Ordine francescano. Verso i 13 anni entra in crisi: gli sembra che la Chiesa non incarni l’Ideale di Gesù e che sia impossibile avere rapporti autentici. Di qui la domanda: che senso ha vivere quando tutto è falso?

Proprio in quel periodo il fratello Luigi conosce a Napoli alcuni focolarini che vendono Città Nuova davanti ad una chiesa. Nel 1967 Elio partecipa ad un incontro gen: ha 15 anni. Intuisce che il rapporto tra quei ragazzi è del tipo che sta cercando. L’anno seguente parte per un congresso a Rocca di Papa. Ma una volta partito, comincia a chiedersi cosa gli è saltato in mente. Che ne valga la pena lo capisce all’arrivo: è pomeriggio, il congresso comincia la mattina dopo, ma già ci sono tanti ragazzi provenienti da tutta Europa che si salutano in un clima interessante.

L’indomani mattina ascolta una registrazione audio di Chiara Lubich, la fondatrice del movimento. E lì succede qualcosa dentro Elio: l’idea di aver trovato! Ha in cuore sentimenti contrastanti: da una parte l’impressione di aver sciupato la vita, dall’altra una gioia inspiegabile. Veglia tutta la notte fuori dalla tenda, con le lacrime che vengono giù. Capisce che non lascerà più Chiara. Le scrive e lei risponde: «Da quello che mi scrivi, mi sembra che Dio ti abbia scelto in modo particolare. Voglio ricordarti quello che diceva santa Caterina: “Chi ha tempo non aspetti tempo”». Comincia così la sua avventura con i gen.

Passano gli anni fino al 1975, quando torna ad affacciarsi un pensiero: «Chi ha tempo non aspetti tempo». Capisce che la sua strada è il focolare. Lo comunica ad un focolarino, che gli dice: «Ah, bene. Sai cosa vuol dire focolare? Gesù Abbandonato. Tanti auguri!».

Elio Cimmaruta

Elio Cimmaruta al lavoro presso il Centro Santa Chiara Audiovisivi del Movimento dei Focolari.

Il momento della partenza da casa per Loppiano è tragico. Con la valigia in mano entra nella stanza dove ci sono la madre e il padre in sedia a rotelle, non in grado di capire. La madre scoppia a piangere, la sorella prende la sua valigia e la butta dalla finestra. Elio abbraccia la mamma e le dice: «Capisco il tuo dolore, ma sento che questa è la mia strada». E lei risponde: «Se è così, vai: ti benedico».

Elio ha la passione per la fotografia, coltivata fin da ragazzo, e anche per i film. A Roma, conclusi gli studi di regia all’Istituto di Stato per il Cinema e la Televisione, per 32 anni mette i suoi talenti al servizio del Centro Audiovisivi intitolato a santa Chiara d’Assisi, che documenta la vita dei Focolari nel mondo.

Nel 2013 gli viene diagnosticato un grave tumore. Vive l’ultimo tratto del suo “santo viaggio” centellinando gli attimi e trasformandoli in altrettanti atti d’amore. Scrive anche una lettera ai suoi familiari, in cui cerca di spiegare cosa significa la sua scelta di vita. Si spegne cosciente e irradiando serenità il 23 febbraio 2014.

La lettera

«Carissimi, vorrei subito tranquillizzare ancora tutti voi familiari che la croce di questa mia situazione, umanamente senza sbocco, non mi schiaccia e, direi, non mi pesa. […] Tutta la mia vita passata converge e acquista il suo senso proprio in questa esperienza che sto vivendo. Essa per me non è perciò una tragica prematura condanna a morte né una croce pesante che sono costretto a portare, bensì il modo più bello per concludere il mio “santo viaggio” offrendo definitivamente la mia vita per quell’ideale, la fraternità universale, per cui 40 anni fa circa la offrii a Dio per la prima volta lasciando tutto per entrare in Focolare.

Offrire la mia vita, dare la vita: vorrei proprio che comprendeste bene cosa questo vuol dire per me. Io non mi sto “consumando”, per un fine anche alto come quello di contribuire al piano di Dio sull’umanità. No, mi sto “donando”, sto facendo della mia vita un dono. Il “consumarsi” ha un connotato di passività, quasi di un processo ineluttabile e fuori controllo. Il dono invece presuppone che faccia di ogni attimo di vita che mi rimane un atto d’amore a Dio e ai fratelli. Il dono va scelto con cura pensando a chi lo riceverà, va abbellito con un pacchetto ben confezionato che ne anticipi il contenuto prima ancora che esso sia manifesto, il dono va porto con un sorriso, il dono deve dare gioia al suo destinatario. E allora i giorni che mi restano saranno un dono d’amore rinnovato in ogni attimo presente. Quand’anche la malattia arrivasse ad impedirmi di parlare o mi riducesse all’immobilità, il dono rimarrebbe tale, anzi ne risulterebbe impreziosito. È il mistero svelatoci da Gesù Abbandonato per il quale il silenzio si fa parola, l’immobilità diventa dinamismo, l’oscurità si illumina, la morte si tramuta in vita, il dolore si manifesta come la forma più alta d’amore.

Dare la vita: quanto significato hanno acquistato per me queste parole! Dare la vita, consegnarla, donarla e con essa affetti, aspirazioni, progetti, gioie piccole e grandi, legami a persone e a cose care. Perdere tutto questo… per amore. E allora “dare la vita” acquista piuttosto il senso di “generare”, “far rivivere”, donare nuova vitalità a qualcuno o a qualcosa che era o pareva morto. Dare la vita per amore come ha fatto l’uomo-Dio che nell’atto estremo dell’abbandono ha annientato la sua natura divina per ridare all’uomo la dignità di figlio di Dio e farlo rivivere. Non potete immaginare quanta vita stia fiorendo da questa mia esperienza in tanti con i quali ho occasione in questo periodo di entrare in rapporto nella verità. E se ho un desiderio ancora, è quello di riuscire a coinvolgere in modo profondo in questa esperienza anche tutti voi familiari contribuendo a generare una nuova vita anche in voi. Sono stato e sono letteralmente sommerso dal vostro amore fatto di mille attenzioni che mi commuovono e di cui sono veramente grato; vorrei però che il nostro rapporto facesse un ulteriore salto di qualità e andando oltre i limiti di un amore ricco, bello, ma semplicemente umano, fosse espressione del divino che c’è in ciascuno. Vorrei tanto, prima di lasciare questa terra, riuscire ad aprire fratelli, sorelle, cognati/e, e più di tutti i nipoti, alla vita piena di chi ha scoperto l’Amore e ne ha riempito la propria esistenza. Vi abbraccio! Elio».

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