Vivere con una malattia invalidante

Le varie angolazioni da cui si può guardare a una situazione non semplice da gestire

Alcuni anni fa venne da me una giovane donna che chiameremo Anna. Aveva ricevuto una diagnosi di sclerosi multipla e voleva essere sostenuta nell’accettarla, ma più di tutto nella possibilità di riorganizzare la sua vita, incluse le relazioni. Al lavoro non aveva detto nulla. Sebbene talvolta le fosse difficile rispettarne gli orari e per via delle indagini in corso e delle cure sperimentali a cui si stava sottoponendo era necessario anche assentarsi, non voleva che i colleghi sapessero.

Per quasi due anni aveva taciuto la notizia anche ai suoi amici. Si era chiusa e si era rifugiata nella sua famiglia e nell’abbraccio della sua amica del cuore. Ma ora era pronta e questo spazio angusto che prima l’aveva protetta ora le stava stretto. Voleva reagire e vivere la vita come ogni altra giovane donna. Si chiedeva come avrebbero reagito gli amici, o un potenziale partner, se realizzando il desiderio di andare a vivere da sola ce l’avrebbe fatta e per quanto tempo. Come sarebbe stato per i suoi genitori che negli ultimi due anni avevano incentrato su di lei tutte le loro attenzioni?

La storia di Anna è una storia che come ogni situazione si può guardare da più angolazioni.

La prima è la sua, con i bisogni, le paure, i sogni, le potenzialità, le delusioni ed i limiti, le cure e la scommessa su un futuro imprevedibile. Perdere l’idea di sé per conquistarne una nuova e attuale che permetta di imparare a destreggiarsi tra ciò che si può ancora fare e ciò che occorre fare in modo diverso sono due passaggi importanti. Il primo si riferisce al lutto di ciò che non si potrà più fare, il secondo al processo di accettazione e di ridecisionalità. Mentre il primo è naturale il secondo è intenzionale, non si attiva cioè senza la consapevolezza della persona, richiede una certa dose di flessibilità mentale ed un ambiente circostante supportivo.

La seconda angolazione è quella dei familiari. Alcuni vissuti si susseguono: incredulità, angoscia, disperazione, rabbia. Nel caso di Anna i suoi genitori avrebbero voluto proteggerla e dovevano convivere con il limite di non poterlo fare. I genitori dovrebbero tenere a mente che anche il rapporto di coppia ha bisogno di essere nutrito mentre i partner dovrebbero ricordare che esistono anche loro in quanto persone. Anche in questo caso il supporto sociale e professionale può fare la differenza soprattutto in specifiche fasi dell’evoluzione della malattia. Sapere che gli altri sanno prendersi cura di sé solleva la persona che sta male dal timore di essere loro di peso. Dal canto loro genitori e partner dovrebbero perdere l’idea di essere dei supereroi o il falso giudizio che se prendono tempo per sé non sono bravi genitori, o bravi mariti/mogli.

Una terza angolazione riguarda i fratelli e le sorelle. Ogni circostanza che si viene a creare ha in sé delle potenzialità e dei rischi. Un fratello può sviluppare autonomia, ma può anche mascherare attraverso di essa la sofferenza di dover fare da solo, o addirittura chiudersi nella convinzione di dovercela fare da solo. Come genitori ci si può intercambiare nelle attenzioni a ciascuno dei figli, come lo si farebbe in molte altre circostanze. Inoltre può accadere che quando una malattia diventa invalidante, anche i fratelli possano faticare a realizzare la loro vita per timore di suscitare in chi è ammalato dei sentimenti di vario tipo legati al confronto con il proprio limite. Si tratta di situazioni di stallo. In questo caso il supporto genitoriale è fondamentale, sia per dare sostegno all’uno affinché realizzi i suoi progetti, sia all’altro per renderlo partecipe delle gioie e dei traguardi del fratello. Anna ad esempio era genuinamente contenta di sapere che il fratello stava avendo i suoi successi.

Una quarta angolazione è quella legata alle relazioni importanti. Parenti ed amici, terapeuticamente parlando, aiutano molto a sollevare il morale e la loro vicinanza è di supporto sia ai familiari che alla persona ammalata. Ma non è sempre così. Anna, nel primo periodo, non aveva voluto far sapere a nessuno della sua situazione, non voleva essere commiserata. Dovette aspettare che arrivasse la fase dell’accettazione della sua diagnosi per poter riprendere a vedere e frequentare amici e parenti, e poter comunicare loro qualcosa della sua nuova realtà. Continuava con ciò ad essere selettiva nello scegliere a chi comunicare il suo stato. Si tratta di un meccanismo di autoprotezione, sia verso di sé che verso l’altro. Ciascuno ha una propria sensibilità e lei per prima non voleva violarla. Soprattutto nelle fasi finali della malattia può esser difficile per amici e parenti confrontarsi con il cambiamento ed il deterioramento della persona e delle sue funzioni.

Una diagnosi di una malattia degenerativa non riguarda solo la persona che ne è portatrice. Essa comporta una rivoluzione psico-emotiva ed organizzativa nell’intero sistema familiare e sociale della persona. Attraverso il modo come ci si relaziona a questa nuova dimensione di vita ci si apre alla possibilità o meno di scoprire nuove modalità, nuovi ausili tecnici, di potenziare abilità personali differenti da quelle fino ad allora utilizzate. Il supporto dell’entourage familiare, sociale e tecnico-professionale è fondamentale per migliorare la qualità della vita della persona assistita. Lo è altrettanto la capacità di non implodere sull’assistito e di spostare l’asse dalla malattia alla persona, dal limite alla vita che si può vivere. Vivere di fatti non è solo “fare”.

 

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