Venezuela col cuore in gola

Dopo una giornata elettorale insanguinata che lascia il governo sempre più isolato, l'incertezza e più di un fantasma aleggiano sul Paese tropicale
Crisi politica in Venezuela (foto AP)

È quantomeno indignante parlare di una giornata elettorale tranquilla, di assoluta normalità e di una “lezione” del popolo all’opposizione, quando sono morte almeno 10 persone in seguito ai disordini tra manifestanti e forze dell’ordine (15 secondo fonti extragovernative). Ma in questi termini hanno descritto la giornata di ieri le autorità elettorali venezuelane – che hanno parlato di un improbabile 99 per cento di affluenza – e i principali protagonisti del governo venezuelano, domenica nella quale si sono eletti 545 membri dell‘Assemblea Costituente.

La giornata era cruciale. L’opposizione, dopo il divieto di realizzare cortei e proteste per la cui trasgressione si sono annunciate pene fra i 5 e i 10 anni di carcere, ha voluto trasformare l’annunciata “presa di Caracas” in una “presa del Venezuela” (impossibile invadere in massa la capitale). La Resistencia, i gruppi degli irriducibili con casco e volto avvolto da tessuti per proteggersi dai lacrimogeni, ha diffuso tramite i social un ultimatum diretto al popolo, alle forze armate e al Parlamento, in cui davano la responsabilità a ciascuno di essi di un possibile bagno di sangue: il popolo sarebbe stato colpevole se avesse abbandonato le piazze e liberato le strade dalle barricate da loro volute (anche se raccomandavano di non opporsi al loro smantellamento da parte di Guardia nazionale e Polizia bolivariana, salvo ricostruirle subito dopo il loro passaggio); i militari lo sarebbero stati se non avessero abbandonato i loro posti a difesa del regolare svolgimento delle votazioni e non si fossero dissociati dal regime; mentre l’Assemblea Nazionale – unico potere repubblicano in mano all’opposizione – sarebbe stata complice se non avesse nominato sabato un governo alternativo da presentare al Paese e alla comunità internazionale come legittimo. Proposte ingenue, ma che danno l’idea del clima di surrealismo tragico di questa domenica venezuelana.

Alla vigilia circolavano per l’etere opposte spiegazioni della crisi dirette all’opinione pubblica latinoamericana. È la destra che vuole riconsegnare il petrolio a buon mercato agli Usa come prima di Hugo Chávez, o si tratta dell’ultimo disperato tentativo del regime di perpetuarsi dicendo di fatto addio alla Repubblica?

Alle 6 del mattino, Nicolás Maduro è stato tra i primi ad emettere il suo «voto per la pace» e dimostrare all’«imperatore Donald Trump e ai suoi vassalli» che il popolo venezuelano aveva in serbo «una sorpresa» per loro, ovvero un’adesione a valanga alla Costituente. Tuttavia, nonostante tutte le semplificazioni possibili messe in campo dal chavismo per facilitare la partecipazione (al limite della controllabilità), e i toni rassicuranti e persino di sfida dei suoi collaboratori, pare che non l’abbiano seguito in molti. Corrispondenti stranieri e fonti locali hanno parlato di seggi semivuoti. In ogni caso, si è lontani dagli oltre 7 milioni che hanno detto no al processo costituente promosso da Maduro il 16 luglio in un plebiscito senza valore legale organizzato dal Mud, il tavolo dell’opposizione. Nella notte l’organismo elettorale ufficiale controllato dal governo ha divulgato il dato di un 41,53  per cento di partecipazione al voto, che corrisponderebbe a più di 8 milioni di votanti.

Almeno 4 morti nello stato di Táchira, 3 in Mérida e 1 ciascuno in Lara, Sucre e Zulia, tra cui due ragazzi di 13 e 17 anni e 7 poliziotti feriti da una bomba nella capitale:è il bilancio purtroppo parziale e poco chiaro dei disordini. C’è chi parla, nel caso di Táchira, di franchi tiratori… E l’angoscia, la paura e l’incertezza per il futuro immediato si fanno prepotentemente strada tra la gente stremata da mesi di penurie e sofferenze, con la drammatica aggravante di oltre 120 morti in circa tre mesi di proteste.

Venerdì i parlamentari, allarmati dalla promessa dell’uomo forte del chavismo Diosdado Cabello di occupare l’Assemblea Nazionale, hanno ritirato gli effetti personali dai loro uffici, duramente criticati da esponenti dell’opposizione che li volevano disposti a dormirci pur di difendere le istituzioni.

Intanto, mentre sempre meno sostenitori di Maduro attendevano i risultati nella piazza principale di Caracas, 10 governi hanno seguito quello della Colombia nel loro ripudio alla Costituente. Sono quelli di Panama, Perù, Argentina, Brasile, Messico, Costa Rica, Svizzera, Cile, Spagna e Usa, insieme all’Organizzazione degli Stati Americani e al Parlamento Europeo. Per Diosdado Cabello hanno solo paura che i loro popoli imitino quelle venezuelano, che vuol prendere in mano il suo destino attraverso i consigli comunali autogestiti dalle comunità di quartiere, che avrebbero preponderanza sui municipi nella nuova Carta Magna.

La contestata Assemblea Costituente dovrebbe istallarsi prima possibile nella sede del Parlamento (l’Assemblea Nazionale). Per quanto tempo e con quali poteri, nessuno lo sa. Neppure Maduro. Il presidente dell’organismo provvisorio incaricato, a seconda del punto di vista, di perfezionare il socialismo e permettere un dialogo civico-politico in realtà sempre più compromesso, oppure di instaurare un sistema di partecipazione popolare di stampo leninista, potrebbe essere un Cabello che passerebbe così ad avere più potere dello stesso capo dello Stato. Secondo alcuni analisti, il governo cercherebbe ora di negoziare un accordo con l’opposizione, prima che la Costituente entri in campo.

Staremo a vedere. Per ora, attendiamo col cuore in gola.

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