Venezia 2016, il gioco degli equilibri

Vince il Festival il film d'autore "The Woman who left" di Lav Diaz, un lavoro di 226 minuti in bianco e nero, mentre il Leone d'Argento va ex aequo a "La règion salvaje" del messicano Amat Escalante e al poetico "Paradise" di Andrei Konchalovsky. Coppa Volpi come miglior attore ad Oscar Martínez ed Emma Stone
Lav Diaz

Cosa sarà meglio premiare, si sarà forse chiesto la giuria presieduta da Sam Mendes, in un festival dalle grandi tematiche e dai grandi nomi? Un film horror, un remake, un mélo, un thriller o un musical e così via? Alla fine la scelta è caduta su un film d’autore, che forse il pubblico non vedrà (quasi) mai, cioè il filippino "The Woman who left" (La donna che partì) di Lav Diaz, 58 anni, artista multiforme di un lavoro di 226 minuti in rigoroso bianco e nero. Storia di una donna, Horacia Somorostro, dalla vita di reclusa ambientata nel 1997, in una nazione abbrutita dalla paura e dalla violenza. Non c’è da sorprendersi troppo: la storia, recente o passata, è uno dei grandi temi della rassegna veneziana, come hanno dimostrato i lavori di James Franco e Mel Gibson, pur non in concorso, o "Frantz" di Ozon e come ha pure dimostrato il ritorno del “bianco e nero”, riscoperto nella capacità di illuminare i sentimenti con maggior espressività del colore. Leone d’oro dunque all’Asia, e non a caso, visto che da questo continente ormai c’è da aspettarsi molte nuove vie, e non solo dalle Filippine.

 

Ma la giuria, nello sforzo di mantenersi in equilibrio, ha dato il Gran Premio al thriller dello stilista convertito alla regia, Tom Ford, per il suo "Nocturnal Animals" – meritato, a dire il vero, per la capacità di unire racconto sospeso a esplorazione per nulla scontata delle reazioni umane – e  il Leone d’argento a "La règion salvaje" del messicano Amat Escalante, inutile e fastidiosa provocazione fanta-sexy, ex aequo con il poetico "Paradise" di Andrei Konchalovsky, vincitore anche del premio Bresson 2016 da parte dell’Ente dello spettacolo. Ancora una riflessione sulla storia, questa volta sulla Shoah: a dire che la storia è maestra, seppure inascoltata, della vita?

 

Per la Coppa Volpi al miglior attore, la scelta quest’anno dev’essere stata difficile, perché di grosse performance ce ne sono state e i candidati erano certo numerosi. Ha vinto Oscar Martínez, protagonista splendido de "El ciudadano ilustre" – disincantato viaggio di un Nobel in terra argentina –, ed Emma Stone de "La La land" batte concorrenti come Natalie Portman ed Amy Adams. Le sconfitte, è presumibile, si rifaranno in qualche modo agli Oscar, perché – sia chiaro – Venezia si sta dimostrando un ottimo trampolino di lancio per le statuette (ricordate Gravity e Birdman?).

 

La lista dei premi poi discende di grado, diciamo così. Premio (solo) per la sceneggiatura a "Jackie" di Pablo Larraín (ma si rifarà in sala e a Los Angeles, non c’è dubbio), e poi la sorpresa: ossia, il premio speciale della giuria al cannibalesco "The Bad Batch" di Ana Lily Amirpour. Più equilibrio di così…

 

Meno male che il Premio Mastroianni come  miglior giovane attore è andato alla tedesca ventunenne Paula Beer per il dolente "Frantz" di Ozon e che la giuria della sezione Orizzonti – quella in genere più innovativa – premia il documentario sugli esorcisti in Sicilia “Liberami” di Federica Di Giacomo. L’Italia non ha vinto nulla in concorso, nemmeno il surreale "Spira mirabilis" o l’ombroso "Questi giorni". Non sarà che, come dice l’argentino Oscar Martínez «ormai ha qualche talento, ma non lo stesso numero di grandi registi di un tempo»? Nemmeno Sorrentino, regista-esteta, con il visionario "The young pope" l’ha risollevata. Forse in concorso  bisognerebbe presentare lavori un po’ più di peso…

 

Certo, personaggi come Wenders, Kusturica, Malick, e il perfetto "Una vie" di Stéphan Brizé non hanno preso nulla, e dispiace. Ma quest’anno la gara era aperta e non facile. Tanto più che la rassegna veneziana si sta mostrando come un caleidscopio che raccoglie le varie voci del mondo, attraverso, da una parte, il recupero di generi tradizionali – western, mélo, thriller –, dall’altra con “contaminazioni” degli stessi generi, come "Arrival" che mescola fantascienza a thrriller  ad indagine metafisica, e aprendosi anche a visioni parareligiose e a riflessioni sulla storia. Sono in definitiva le voci di un mondo globalizzato e al contempo frammentato, “scoppiato” eppure desideroso di tenersi legato, dove il confine tra cinema, fiction e teatro è rallentato, come dimostra il lavoro di Sorrentino o "La La land" o il film di Wenders. Quest’anno, Venezia ha fatto un passo in avanti nella cernita dei lavori, anche se la strizzatina d’occhio a film inutilmente provocatori (perché fini a sé stessi) non è superata e se il mercato ancora non vola troppo alto. Tanto per dire, il film vincitore ancora non ha un distributore. Ma l’amicizia con Hollywood è rinata alla grande, come dimostra la superpresenza  americana in Laguna, non solo di star. Forse sta risalendo la china? Speriamolo.

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