Sfoglia la rivista

Cultura > Dibattiti

Uscire dalla cultura del potere, dialogo con il filosofo Roberto Mancini

a cura di Silvio Minnetti

- Fonte: Città Nuova

Per poter pensare ad un futuro possibile, occorre andare oltre la logica del mercato e della guerra per riscoprire una filosofia attenta alla verità della vita e dell’amore che la fonda

Immagini di passanti su un tabellone del mercato azionario EPA/FRANCK ROBICHON

 Su Città Nuova è presente ormai da tempo una traccia di riflessione in forma di rubrica dal titolo Ripensare il Pensiero. Il paradigma della complessità per rigenerare la politica.

Nel solco di tale ricerca è molto interessante il recente testo pubblicato dal filosofo Roberto Mancini con il titolo Il senso nella vita. Ragioni e prospettive per una conversione di civiltà, Franco Angeli nel 2024

Ne abbiamo parlato con l’autore, professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata.

Cosa intende per “conversione di civiltà”?
Intendo un grande e graduale percorso di apprendimento sociale per cui persone, comunità e istituzioni imparano a seguire una logica biofila, capace di sintonia con la vita e di cura per tutte le relazioni vitali, dismettendo l’abitudine alla sopraffazione, alla competizione e soprattutto alla logica del potere.

Quale forma di civiltà è stata finora predominante?
La nostra civiltà ha, nel suo strato culturale più profondo, un pervicace attaccamento al potere perché l’ha sempre sentito come la condizione decisiva per difendersi sia dalla morte che dai pericoli della vita. Il potere sembra un mezzo sempre efficace, plastico, capace di adattarsi agli scopi che vogliamo perseguire. 

E invece come si rivela il potere nella sua essenza ?
In realtà il potere non è né un mezzo, né un docile servitore degli interessi e delle finalità umane. È fatto di imposizione e autoreferenzialità. Muta le relazioni interpersonali e sociali in un circuito dove dominati e dominatori si muovono complementarmente in una catena senza fine. Inoltre, il potere pensa solo a sé, ad accrescersi, a espandersi, non serve altri che sé stesso. Perciò il potere, nella vita collettiva, instaura il comando, non il governo.

Che differenza esiste tra potere e governo?
Governare davvero significa ascoltare una comunità sociale, fare la sintesi e dare risposa ai suoi problemi. Oggi nel mondo siamo pieni di potere e fortemente carenti di funzioni di autentico governo dei grandi problemi dell’umanità. Uscire dalla cultura del potere è un passaggio così radicale da implicare una vera e propria conversione di civiltà, che consiste nell’imparare ad abitare la vita senza ricorso al potere e alla violenza per scegliere invece di prenderci cura del bene comune.

 Come dice Franco Arminio nella prefazione del suo libro, l’attuale modello di sviluppo capitalistico «sta uccidendo il pianeta e sta fiaccando la nostra salute fisica e morale». Ne consegue che abbiamo bisogno di una politica ed una economia diversa. In che senso?
Bisogna prendere atto dei risultati della civiltà del potere, che tutti possono constatare: una struttura mondiale di radicale e insostenibile iniquità, un sistema economico a guida finanziaria che persegue il benessere del denaro e parassita la vita delle persone e della natura, un circuito di relazioni internazionali fondato sulla prepotenza e sulla guerra, per cui anziché di “geopolitica” dovremmo parlare di “geobellica”. Quanto sta accadendo a Gaza, in un massacro senza fine, senza vergogna e senza pietà, è il simbolo tragico che riassume lo stato attuale del mondo.

Quali sono le cause di una tale tragedia che si sta consumando sotto i nostri occhi?
È l’esito di una cultura fondata sull’autoaffermazione, di un’economia fondata sulla competizione e di una politica fondata sulla lotta per la conquista del potere. Dal punto di vista teologico è anche il frutto di una mentalità che ha saputo immaginare Dio sempre e solo come onnipotenza, senza mai fermarsi ad accogliere davvero la rivelazione che lo rivela come Padre che ama con amore materno, generoso, indefettibile e misericordioso.

Come ne possiamo uscire?
Potremmo risanare questo stato di cose intollerabile se accettassimo di accogliere e tradurre l’amore lì dove invece siamo abituati a mettere il potere. Ci sono molte prospettive ed esperienze nell’ambito di un’economia equa ed ecologica. Più difficile è rigenerare la politica, perché la tendenza prevalente è quella di viverla come lotta per il potere, ma anche qui non bisogna disperare.

Ma la politica non appare sempre di più irredimibile? Come si fa a sperare ancora?
Occorre costruire situazioni di democrazia partecipata territorio per territorio, sostenendo in prospettiva più ampia il costituzionalismo dalla dimensione nazionale a quella mondiale, secondo le idee di recente riproposte in Italia da Luigi Ferrajoli. Rimane decisivo, comunque, quel passaggio interiore ed esistenziale per cui i singoli possono sottrarsi alla dittatura dell’io narcisista e liberare la loro anima, cioè la loro soggettività profonda e più umana. Infatti, la qualità delle nostre azioni dipende in ogni caso dal tipo di persona che siamo e dai sentimenti che ci orientano.

Alcuni autori importanti, espressione del pensiero della complessità,  come Morin e Ceruti, parlano di un  salto di paradigma rispetto alla modernità,  di nuovo umanesimo planetario nell’ unica comunità di destino. Siamo sulla stessa linea?
Da molti anni si è insistito sul cosiddetto paradigma della complessità. Questo è positivo, perché in fondo così si promuove uno sguardo che coglie le relazioni e le interdipendenze, uscendo dalle ideologie dell’io o del noi vissuti con atteggiamento particolaristico, aggressivo e suprematista. “Complesso”, etimologicamente, è ciò che è tessuto insieme, per cui una cultura della complessità è una cultura che si ispira alla coscienza della correlazione in cui vive qualsiasi presenza della realtà, esseri umani, animali, piante, istituzioni. D’altra parte, quella di complessità è ancora una categoria piuttosto descrittiva, che non esplicita la direzione, il senso, la preferenza per un certo modo di stare al mondo. A me pare quindi che ormai sia più focalizzato parlare di coralità.

In cosa consiste tale coralità?
È un’esigenza avvertita da molte voci filosofiche, teologiche e sapienziali, che, in varie culture del mondo, invocano la categoria della coralità. Essa rimanda alla metafora del coro, che evoca un canto comune dell’umanità, nel quale al tempo stesso si riconosce la voce unica di ciascuno. Questa maturazione sarebbe attuata con l’emersione di una coscienza corale dell’umanità, dove è acquisito che i problemi e le sfide vanno affrontati con la profonda consapevolezza che siamo una sola umanità sulla stessa Terra. Perciò la vera transizione epocale è l’emersione, oltre la modernità intesa come civiltà che ha globalizzato e portato all’estremo la logica del potere, dell’epoca corale, nella quale siamo molto più coscienti di essere una comunità.

Nel suo libro afferma che serve una trasformazione del pensiero attingendo a quelle correnti filosofiche che si sono riconciliate con la vita. A cosa si riferisce?
Dico che in tutte le culture sono fiorite filosofie, teologie e sapienze che si sono orientate alla sintonia con la vita. Con ciò intendo l’attitudine a evitare atteggiamenti, logiche e comportamenti disgregativi preferendo ciò che esprime cura, generosità, servizio, impegno ad armonizzare invece che a vincere e a lacerare.

Ad esempio?
Nelle filosofie africane, latino-americane e asiatiche, ad esempio, ricorre una grande sensibilità per il legame con la Terra e con la natura, così come per il carattere comunitario della vita. Anche nella tradizione europea abbiamo avuto filosofie che si sono stancate di inseguire le rappresentazioni metafisiche fondate sull’astrazione per l’astrazione e hanno invece preferito riascoltare l’esperienza della vita, riconoscendo che è in essa che va cercata la verità.

Ci può offrire una traccia di questo filone di pensiero in Europa?
Certo. Se consideriamo l’arco che va dall’età classica del pensiero moderno sino ai nostri giorni, incontriamo le intuizioni del giovane Hegel, la protesta di Nietzsche contro il nichilismo come negazione della vita, l’entusiasmo di Bergson per la forza rinnovatrice che anima la vita universale, l’apertura di Husserl e della fenomenologia al suo rivelarsi nella complessità dei fenomeni, l’attenzione di Gadamer e dell’ermeneutica al tessuto di significati di cui è costituita la vita stessa, nonché il riconoscimento del legame originario che sussiste tra essa e la forza dell’amore nella visione di María Zambrano.

Quali effetti concreti comporta questa nuova attenzione del pensiero filosofico nel nostro tempo?
Possiamo dire che la storia delle filosofie del mondo può essere letta nella chiave della conoscenza biofila e dell’esperienza della verità piuttosto che nella chiave astratta del modello logico-deduttivo o nella chiave scompositiva del modello analitico. Ne consegue che una filosofia attenta alla verità della vita e dell’amore che la fonda ha un valore educativo straordinario e può offrire alle nuove generazioni quella luce di futuro che l’attuale società di mercato e di guerra sta offuscando.

Riproduzione riservata ©

Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come?
Scopri le nostre riviste,
i corsi di formazione agile e
i nostri progetti.
Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni:
rete@cittanuova.it

Condividi

Ricevi le ultime notizie su WhatsApp. Scrivi al 342 6466876