Unità frutto del dialogo

L’incontro di Giovanni Paolo II con l’induismo, fu una delle tappe di preparazione all’incontro tra le religioni. «Il dialogo rende presente Dio». Dal blog In dialogo
Giovanni Paolo II e Rajiv Gandhi

Nell’esperienza di papa Wojtyla, un pontefice itinerante come ben sappiamo, alcune tappe restano fondamentali nell’ambito del suo impegno al dialogo fra le religioni. E sono state queste a preparare Assisi 1986, mettendo in evidenza commi dialogo sia davvero un pellegrinaggio e come Giovanni Paolo II sia stato capace di farsi ‘pellegrino’ con tutti gli altri.

 

Il primo ‘pellegrinaggio’ di quel 1986 avvenne in terra indiana. Fu l’incontro del papa polacco con l’induismo e la sua sapienza millenaria, ma soprattutto, fu un riconoscere uomini e donne dell’India che hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia dell’umanità. Fra tutti, Giovanni Paolo II citò più volte Gandhi, definendolo padre della nazione, ma anche eroe dell’umanità. Di fronte alla pietra nera con la fiamma perenne che brucia a ricordare che il Mahatma, la grande anima, continua a vivere, Wojtyla sprofondò in una preghiera che sembrava non aver fine, al punto che, un amico che in quel tempo prestava servizio presso la Nunziatura di New Delhi, mi raccontò che lo si dovette richiamare al proseguo del programma, sia pure in modo discreto e non senza tentennamenti, tale era la sacralità della scena. Più volte, in quei giorni il papa citò esponenti dell’induismo a conferma di quanto egli stesso disse. «Il maggior contributo dell’India al mondo può essere quello di offrigli una visione spirituale dell’uomo».

 

Ma in India Giovanni Paolo II espresse una intuizione particolare sui frutti preziosi del dialogo. Vale la pena ricordarlo.

«Il frutto del dialogo è l’unione tra gli uomini e l’unione degli uomini con Dio, che è fonte e rivelazione di tutta la verità e il cui Spirito guida gli uomini alla libertà solo quando questi si fanno incontro l’uno all’altro in tutta onestà e amore. Attraverso il dialogo facciamo in modo che Dio sia presente in mezzo a noi; poiché mentre ci apriamo l’un l’altro nel dialogo, ci apriamo anche a Dio.

Dovremmo usare i mezzi legittimi della umana benevolenza, della comprensione reciproca e della persuasione interiore. Dovremmo rispettare i diritti personali e civili dell’individuo. Come seguaci di diverse religioni dovremmo unirci insieme nella promozione e nella difesa degli ideali comuni nei campi della libertà religiosa, della fraternità umana, dell’educazione, della cultura, del benessere sociale e dell’ordine civile. Il dialogo e la collaborazione sono possibili in tutti questi grandi progetti […].

In questo modo Dio sarà onorato e la famiglia umana sperimenterà sempre più pienamente la sua unicità e il suo comune destino. I popoli sentiranno l’urgenza di una solidarietà globale di fronte alle enormi sfide che l’umanità deve affrontare. La saggezza e la forza che provengono dall’impegno religioso umanizzeranno ulteriormente il cammino dell’uomo attraverso la storia»[1].

 

Ero presente in quei giorni. Mi trovavo nel piazzale antistante la cattedrale di New Delhi, quando Giovanni Paolo II arrivò direttamente dall’aeroporto. Nonostante la strettissima sicurezza, i servizi indiani mi scambiarono come un funzionario del Vaticano e potrei restare indisturbato a salutare Giovanni Paolo II, che incontrai nuovamente il giorno dopo al palazzetto dello sport nella capitale e nella cerimonia conclusiva a Shivaji Park a Mumbai. È difficile esprime cosa l’India sperimentò in quei giorni. Nonostante fosse già chiara l’ascesa dei fondamentalisti, il papa conquistò l’animo degli indiani. Furono milioni ad ascoltarlo e vederlo nelle 14 tappe del viaggio-pellegrinaggio e la maggioranza erano indù, ma anche musulmani, sikhs, giainisti e zoroastriani.

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