Il bello della vecchiaia è avere una lucidità, delle conferme su un’intuizione che prima avevi solo intravisto. Il 2 gennaio ho festeggiato i miei 80 anni, e l’unica cosa che mi viene di dire è «grazie!». Sono nata a Orta di Atella, in provincia di Caserta, ma sono cresciuta a Napoli. Sono la quinta di 6 sorelle e un fratello; appartenere a una famiglia numerosa è stato per me un arricchimento incredibile per la varietà che vedevo tra di noi.
La nostra era una famiglia borghese, mamma era una nobile, papà un medico. Entrambi avevano una grande apertura alle novità, professavano la fede cattolica, a cui ci hanno educato, e ci hanno trasmesso una forte impronta di solidarietà e aiuto ai più poveri. Mi sono subito ribellata agli obblighi cristiani che ci imponevano, come il rosario o la messa.
A dire il vero sono sempre stata abbastanza terribile… volevo sentirmi grande, provavo quest’ansia dentro di me; perciò cercavo di attirare l’attenzione degli amici delle mie sorelle. Ma avevo un grande complesso: mi sentivo la più brutta di casa, e sicuramente rispetto alla sorella con cui giocavo sempre ero meno carina. Mia madre, con l’intelligenza dell’amore, cominciò a dire ai suoi amici: «Quando vedete le mie figlie, non fate i complimenti alla più bella, date all’altra da parlare». Questo gesto mi ha liberato dalla pressione dell’aspetto estetico e mi ha sciolto nei rapporti intergenerazionali, lasciandomi libera di relazionarmi con chiunque.

Diana Pezza Borrelli con padre Alessandro Zanotelli.
Mamma aveva un enorme timore: che diventassimo unicamente mamme casalinghe. Per questo non ci ha mai insegnato a pulire né a cucinare, bensì ci ha spinto a fare l’esperienza scout, la quale ci ha portato fuori di casa e ci ha spalancato gli orizzonti. Sognavo di diventare chirurga, ma per papà era una professione troppo maschile all’epoca. Perciò ho ripiegato sull’Educazione fisica, che insegnava le materie che mi piacevano: antropologia, anatomia, fisiologia… Nella mia vita c’erano lo sport, i concerti – ho sempre amato la musica classica –, e il mio fidanzato, con cui si prospettava il matrimonio. Ma ero inquieta: sentivo che c’era qualcosa per cui questo rapporto non arrivava al fondo della mia anima.
Eravamo nel ’66, e per mezzo di un sacerdote conoscente di mia sorella sono stata invitata ad un campeggio a Rocca di Papa. Non sapevo di cosa si trattasse, ma ho pensato che fosse l’occasione per mettere a rodaggio la mia prima macchina, appena comprata grazie al mio lavoro da insegnante.
Nessuno dei temi di quell’incontro mi ha minimamente interessata. Tuttavia, per buona educazione mi sono messa a disposizione: accompagnavo tutti con la macchina su e giù a seconda dei bisogni, e questo mi rendeva felice, perché uno è contento quando ama. Vedendomi tutta allegra, un sacerdote ha commentato: «L’ideale ha toccato Diana, le è entrato dentro». Intimorita, ho educatamente lasciato le posate sul piatto, ho preso la macchina e sono scappata, decisa di tornarmene a casa.
Era il pomeriggio di una domenica di luglio e ai Castelli Romani c’era tanto traffico. All’improvviso, un contrattempo inatteso: sono rimasta senza benzina. A casa mia avevamo l’autista, per cui non mi ero mai preoccupata della messa a punto della macchina. Ero bloccata, e nessuno mi sarebbe mai venuto a cercare. Mettendo da parte l’orgoglio, ho chiamato il campeggio a Rocca di Papa e mi sono venuti a prendere.
Di nuovo in quello strano luogo, ho avuto l’impressione che attorno a me ci fossero delle relazioni in cui io non penetravo, non avevo la chiave di accesso per quella qualità di rapporti. Un sacerdote si è avvicinato e ha iniziato a parlarmi del mio abbigliamento e della mia eleganza. Questa conversazione mi ha ridato identità e luogo. Mi ha consigliato: «Non ti domandare nulla, continua ad amare e capirai». Più avanti ho compreso che quella è stata la prima Mariapoli al Centro dell’Opera di Maria.
Di ritorno a Napoli ho capito che dovevo interrompere il mio fidanzamento, perché non c’era una connessione con l’orizzonte di speranza che mi si apriva, con quella libertà nuova che scoprivo. Ho cominciato ad andare a messa tutti i giorni, perché sentivo l’esigenza di nutrirmi per avere quella qualità nei rapporti.
Ho avuto un incontro personale con Gesù, ma ho capito che il rapporto con Lui passava necessariamente da un servizio concreto, per cui ho cominciato tante attività di volontariato. Nel contempo, ho iniziato a frequentare il focolare senza che mai nessuno mi giudicasse. Con quanta misericordia sono stata accolta! Nel Movimento dei Focolari ho trovato una grande libertà di intervenire, di dissentire, di essere me stessa fino in fondo… e questa libertà è stato il più grande dono che Dio mi ha dato.

Diana e Antonio Borrelli. Ischia, 2004.
Alla fine di quell’anno ho avuto la cattedra all’Istituto statale d’arte Filippo Palizzi. Insegnavo all’aperto, nel cortile lungo il quale si affacciava il laboratorio di oreficeria e arte dei metalli, il cui responsabile era il professor Antonio Borrelli. Dopo un anno mi ha invitata a conoscere il suo studio da scultore, in via della Solitaria. Poi mi ha fatto conoscere il quartiere e, a un certo punto, ha preso una rosa rossa e si è dichiarato.
Il nostro è stato un faticoso percorso di conoscenza reciproca: Antonio aveva 16 anni più di me, veniva da una famiglia operaia, era sindacalista della Cgil per gli artisti, membro della Commissione culturale del Pci, svolgeva un impegno nel sociale molto forte, e aveva fatto un percorso di autonomia rispetto alla fede.
Io praticavo tante attività di solidarietà, di beneficenza, di impegno nel sociale che lui non sempre comprendeva, perché la maggior parte erano legate al mondo della Chiesa. Non avevo nemmeno gli strumenti per spiegare perché per me fossero importanti, ma avevo dentro la certezza che l’innamoramento che provavo per il carisma dell’unità mi rendeva libera. E avevo la libertà di accompagnare anche lui in tante realtà. Antonio però lo sentivo oppresso da questa mia autonomia, anche economica e civica… questa libertà che avevo nell’incontrare il suo mondo e nel saperlo coniugare con il mio. Eravamo dei fidanzati che si ponevano tante domande, e siamo stati aiutati da coppie e religiosi che ci hanno accompagnato.
Nel 1968 abbiamo occupato l’Istituto. Questa rivoluzione sociale e culturale che il ’68 portava la sentivo vera! Proprio la scoperta dell’ideale dell’unità mi faceva comprendere che l’unica rivoluzione possibile era quella dell’amore… che passa dal dialogo.
Nel 1970 abbiamo affittato una casa vicino allo studio di Antonio. Sono seguiti due anni di lavori in cui lui ha speso tutti i nostri risparmi per rifarla a suo gusto… Non ero d’accordo, non mi sembrava giusto, e così dopo un anno l’ho lasciato e me ne sono andata. Avendo capito che la dinamica dell’unità passa sempre da rapporti autentici e veri, ho raggiunto a Ovindoli Ginetta, una focolarina a cui ho raccontato della nostra crisi di coppia. Lei provocava la mia comunione d’anima, la condivisione delle mie incertezze e delle mie percezioni…
Nel frattempo, era giunto un cd da parte del mio fidanzato con la canzone napoletana che dice Torna, questa casa aspetta te. Ginetta mi ha fatto capire che dovevo verificare quale fosse la volontà di Dio su di me. «Una cosa è sicura – ho risposto –, voglio stare in focolare, sento che questa è la mia strada». Seguendo un suo consiglio sono andata a Nemi, vicino a Roma, dove la Cei organizzava il primo convegno per il dialogo tra credenti e non credenti. Mi serviva una preparazione per affrontare un rapporto con delle diversità così radicali. Infatti, tornata a Napoli abbiamo ripreso la relazione con maggiore consapevolezza ed entusiasmo.
Avevamo in comune un grande amore per l’umanità, per la pace, per la giustizia, per i diritti, per la natura… Abbiamo deciso di sposarci, organizzando un matrimonio con due riti, grazie al consenso speciale dell’allora arcivescovo di Napoli, cardinale Corrado Ursi. È stato uno scandalo! Per la sua famiglia, perché ho portato il loro figlio in chiesa; per i miei genitori, perché mi sono sposata in comune. Non andavamo bene per nessuno, e quella consapevolezza, che in quel momento mi ha molto addolorata e ferita, mi ha accompagnata per sempre. Non è stato un rapporto facile, ma è stato un rapporto realizzato, mi ha dato una vita di senso.

Diana Pezza Borrelli e il marito, Antonio Borrelli, incontrano Chiara Lubich con motivo della consegna alla presidente del Movimento dei Focolari di una medaglia realizzata dall’artista. Castelgandolfo, 11 ottobre 2003.
Nel 1983, come Movimento dei Focolari, abbiamo ricevuto un’indicazione da Chiara Lubich, la fondatrice: se nella vostra città c’è un luogo di culto diverso dal vostro, quello è il vostro posto. Nel mio quartiere c’è l’ultima sinagoga rimasta dell’Italia meridionale. Ci sono andata, e la sorpresa è stata incontrarvi tanti volti già conosciuti. E soprattutto, ho trovato quella che poi sarebbe diventata una mia grande amica, Alberta Levi Temin, testimone sopravvissuta all’olocausto.
Prima di lasciare il vescovado, il cardinale Corrado Ursi chiese di fondare l’Amicizia Ebraico Cristiana (Aec), di cui sono cofondatrice a nome del Movimento. Questa associazione, che ha la sua radice nel dolore della Shoah, è stata una strada per il dialogo e la fraternità. Abbiamo fatto delle conferenze per la conoscenza reciproca, siamo andati nelle scuole, nei seminari e nelle istituzioni politiche per educare al rispetto delle diversità e testimoniarlo con il nostro rapporto. Nel ’90 sono stata eletta presidente dell’Associazione, e più avanti lo sarei stata di tutte le Aec di Italia.
Nel ’95 sono stata candidata alle elezioni regionali. Allora si voleva proporre qualcuno del Movimento dei Focolari che fosse conosciuto a Napoli per il suo impegno sociale, nel volontariato, nel dialogo…, perché tenesse “Gesù in mezzo”. Chiara era d’accordo, anche mio marito. Mio padre mi ha dato la sua benedizione e mi ha raccomandato di farmi carico della parte più debole dell’umanità. Era l’inizio di quello che lei pensava del Movimento politico per l’unità.
I miei discorsi riportavano esperienze, progetti basati sul concreto. Mi rendevo conto che non c’era una valutazione reale del mio ruolo, ma continuavo a coltivare i rapporti. «Hai capito bene – mi disse Chiara –, questo è il ruolo di Maria: fare dialogo». Grazie a lei avevo scoperto in Maria una Donna che mi affascinava, con la sua autonomia, libera dai commenti dei genitori, di Giuseppe, del paese… Chiara non ha mai nascosto il profilo rivoluzionario del Magnificat.
Nel 1998, insieme a tante amiche, ho fondato l’associazione Emily, una realtà per portare più donne in politica, che negli anni si è trasformata nell’associazione Donne meridiane. Non sono mai stata femminista, perché sono naturalmente donna, non ho dovuto affermare la mia femminilità. Tuttavia, ho fatto tutte le battaglie contro i femminicidi, per la libertà e il rispetto dell’identità femminile, con le teologhe perché ci fosse un pensiero femminile, cosa che considero fondamentale. C’è ancora bisogno di un pieno equilibro tra uomo e donna, perché la cultura maschilista e una Chiesa troppo maschilista non giovano allo sviluppo e alla maturazione piena della nostra umanità.
Nel 2011 sono stata eletta nella municipalità come capogruppo di tutta la sinistra. Ho proposto dei progetti che passavano dal confronto e dall’unanimità, come “Alberi per la vita”, un’iniziativa che si porta avanti tuttora. Chiunque vive la carità concretamente fa politica, e la politica è la forma più alta di prendersi cura affinché fioriscano tutti gli altri amori. Mi rendo conto che ho una visione troppo strana della politica per i colleghi, ma sento che è l’unica vera. Il bene comune passa attraverso il dialogo con tutti e l’esperienza quotidiana di partecipazione alla vita degli altri.
Qualche anno fa con l’Aec sono andata in Israele e Palestina in missione di pace. Anche studenti dei due popoli sono venuti in Italia per un incontro interculturale. Avevano l’esigenza di parlare tra loro: hanno scoperto di avere le stesse paure, speranze, attese… L’umanità è destinata a questo intreccio, a questo connubio. Hanno ballato e mangiato insieme. Erano consapevoli che non avrebbero più potuto né incontrarsi né chattare.
Vivere il dialogo con mio marito, in politica, tra le religioni, intergenerazionale… mi ha fatto sviluppare una totale apertura, che penso sia l’essenza del messaggio di Chiara. Il dono che mi viene dato di conoscere le persone più varie non è per me, ma perché io possa testimoniare la bellezza del vivere per amore. Ho sempre sentito il rapporto con Gesù come fondante dei rapporti con questa vasta umanità… Proprio perché sono tutta di Dio, sono di tutta l’umanità!
C’è fame d’amore nel mondo, e tanti cercano di colmarla con qualche palliativo; invece questa fame si sazia amando gli altri. Per essere perfetti nell’amore bisogna avere “occhi di Pasqua”, quelli di chi ha visto la risurrezione dalla morte. Perché c’è gusto a vivere la vita così, e io voglio morire viva!