Una vita da mediano

In fabbrica, nella squadra di calcio, in famiglia, nel volontariato. Oggi Renato è in pensione, ma sempre al servizio degli altri.
Renato Masia

Avevo sentito parlare spesso di Renato Masia, una storia personale particolarmente interessante, ma non avevo mai avuto modo di sentirla direttamente da lui. Accompagnato da un amico in comune, Paolo, ho avuto l’occasione di conoscere Renato nella sua casa che domina il porto di Augusta.

 

Da una nuvoletta di fumo che spunta da una sigaretta del tipo slim line appare Renato, figura slanciata, esile, direi anche lui slim line. A far da cornice al nostro incontro un bellissimo e rilassante giardino. «Avevo appena 18 anni – comincia Renato dopo i convenevoli di rito e il passaggio immediato dal lei al tu – e stavo frequentando un corso professionale a Priolo Gargallo quando fui chiamato dalla raffineria di Priolo come conduttore di impianti chimici. Avevo preso con entusiasmo quel lavoro impegnandomi a farlo sempre bene. Dopo appena tre anni vi fu un grande momento storico sindacale (eravamo a cavallo degli anni sessanta-settanta), e allora i sindacati rivendicavano l’eliminazione delle gabbie salariali (significa che un operaio del Nord guadagnava di più di uno del Sud pur con stessa qualifica e stesso contratto). Mi buttai nella mischia – continua – perché sentivo di impegnarmi per una giusta causa, frutto dell’educazione ricevuta da mio padre, ex partigiano, che aveva un alto senso del rispetto per tutti. Non mancarono l’occupazione di strade statali, il rogo di copertoni, il blocco di porti e ingressi ad edifici importanti, i controlli e le schedature della polizia: il tutto per dare un segnale forte all’opinione pubblica e rafforzare l’azione sindacale. Dopo 17 giorni di queste manifestazioni le gabbie salariali furono abolite».

 

Gli chiedo quali fossero le sue aspirazioni di quel tempo ed anche i suoi rapporti con la religione. Mi risponde che fondamentalmente non aveva dentro un sentimento di ricerca o desideri particolari, ritenendosi soddisfatto. Per ciò che riguardava i rapporti con la religione, la risposta fu sintetica ed esaustiva al tempo stesso: “lontani”. «Sono entrato in chiesa a 11 anni per la prima comunione ed il giorno del mio matrimonio».

 

«Il gioco del calcio – prosegue Renato – mi ha affascinato fin da piccolo. Ho militato nella squadra locale in serie D e C ed il ruolo a me più congeniale era quello di mediano. Ruolo spesso oscuro, non alla ribalta. Difficilmente fa goal, ma va ad aiutare sia la difesa che la spinta all’attacco. Anche giocando, sentivo che l’essere al servizio degli altri, della squadra, mi soddisfaceva. Una volta appeso al chiodo le scarpette, ormai sposato, il pomeriggio della domenica era un momento sacro per me perché mi piaceva seguire le partite e tutte le trasmissioni ad esse collegate. Nel periodo in cui mia moglie era incinta, venivano a casa delle persone proprio la domenica pomeriggio ed io, per educazione, rinunciavo a seguire le trasmissioni. Vedevo, però, che ciò stava diventando un rito costante e la cosa cominciava a darmi fastidio; probabilmente, non riuscivo a nascondere del tutto questo disagio.

 

«Un pomeriggio venne un tizio, capellone e un po’ trasandato, il quale anziché stare con gli altri si avvicinò interessandosi a me, ai miei gusti, al calcio; la cosa strana fu che cominciai a provare per lui una certa simpatia. Ad un certo punto mi invitò ad un incontro a Siracusa ed io non ebbi alcuna remora ad andare. Durante quell’incontro ascoltai una conversazione su Dio Amore fatta da Chiara Lubich. Per me fu una grossa novità perché il Dio che conoscevo fino ad allora era un Dio giudice, giustiziere, punitivo, non un padre che ti ama. Fu un’autentica rivelazione che mi cambiò la vita. Cominciai a considerare le parole del Vangelo come parole vive e feci l’esperienza di metterle in pratica. Quelle stesse parole per me divennero un format di vita vera, perché cambiavano i rapporti che avevo costruito. Se prima stimavo ed amavo mia moglie Adele, adesso tutto era centuplicato. Quello che avevo ricevuto maggiormente era la libertà di potermi proporre a tutti per quello che ero.

 

«Anche al lavoro, dove mi conoscevano bene, continuavano a sottopormi le problematiche da risolvere perche sapevano che mi sarei impegnato fino in fondo da autentico mediano. A tal proposito ricordo un momento difficile per il nostro lavoro: la direzione della fabbrica faceva di tutto per far apparire l’azienda in crisi e mettere in cassa integrazione gli operai, facendone accollare allo Stato il costo. Sentivo – e in questo frangente l’aiuto di Paolo che lavorava nel mio stesso reparto fu determinante – di guardare alla realtà del reparto dove lavoravamo: coinvolgendo tutti, siamo riusciti a far vedere alla direzione che i posti non erano in esubero, ma anzi occorrevano altre unità lavorative. Risultato: nessuno andò in cassa integrazione, ma qualcuno vi si aggiunse. Era cambiato il modo di rivendicare: non più la forza fisica, l’irruenza da mediano da contrapporre, ma il dialogo costante e sereno mediando fra le parti».

 

Il racconto di Renato si fa interessante, ricco di tanti episodi di aiuto alle persone più emarginate e di interventi concreti della Provvidenza. Adesso che, appena passata la cinquantina, si trova libero dagli impegni di lavoro, mi viene subito da chiedergli come passa il tempo da giovane pensionato. «Il tempo non mi basta mai – esordisce – per un certo periodo sono andato a fare volontariato nel carcere di massima sicurezza vicino ad Augusta. Ho ricevuto tantissimo da quelle persone che vi soggiornavano, bastava dar loro solamente la possibilità di essere ascoltate o aiutate nelle piccole cose che non potevano fare a causa della loro condizione. Attualmente aiuto in parrocchia per l’accoglienza agli immigrati e mi metto a disposizione di quanti hanno bisogno, ad esempio, di essere accompagnati da qualche parte e non hanno il mezzo per farlo».

 

Il lavoro non gratificante, oscuro, da… stavo per dire operaio, ma direi da mediano, non abbandona mai Renato. Un’ultima considerazione: a proposito del mercante che trova la perla e vende tutto per averla, gli chiedo qual è la sua “perla” in questo periodo della sua vita. «Più di ogni cosa  – dice  – mi emoziona e mi dà tanta gioia portare l’Eucarestia agli ammalati. Non è un servizio che faccio, ma un dono che ricevo. Vedere una persona a letto che non si può muovere, che non può deglutire, aiutarla a pregare, porgerle un pezzetto di ostia e cogliere dai suoi occhi la gioia di ricevere l’Eucarestia, per me è emozionante perché vedo ad un tempo Gesù in croce e Gesù risorto. In quel momento sono a contatto diretto, attraverso quel corpo inerte, con il Paradiso. Ecco perché dicevo che non sono gli altri che ricevono da me, ma io che ricevo da loro».

 

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