Una comunione più ampia all’interno del quartiere

Intervista a don Antonio Loffredo, parroco nel quartiere della Sanità a Napoli, premio "Fraternità – Città di Benevento" 2012
Don Antonio Loffredo

Don Antonio Loffredo arriva alla Sanità dopo 18 anni di impegno nella periferia napoletana e capisce subito che non può prendersi cura di quella gente senza calarsi nei loro drammi secolari, nelle più svariate contraddizioni sociali, per farsi carico dei bisogni fondamentali: l’esigenza di un lavoro e una vita dignitosa, un aiuto alle forze giovanili che vogliono sconfiggere la ghettizzazione del quartiere, per aprirsi alla città a al mondo. Gli chiediamo con quale animo ha accolto questo riconoscimento che il Movimento dei focolari e la città di Benevento hanno voluto a lui attribuire.
 
«Sono grato alla città di Benevento e a quanti hanno pensato di attribuirmi questo premio che accetto con gioia. Viene a me consegnato, ma in realtà viene consegnato alla gente della mia comunità, gente che possiede in maniera naturale e istintiva un senso profondo di umanità e di fraternità vera».
 
 Pensiamo che questa dimensione di autentica umanità ti abbia permesso di vivere un’esperienza significativa.
«Molto significativa. Quando trovi un terreno così fertile puoi seminare. Ricordo che quando ho cominciato a parlare di cooperazione – qui la mancanza di lavoro è il primo problema – non sapevo cosa sarebbe accaduto. Al Sud, in genere, siamo lontani dalla visione razionale del Nord, lontani dal sapere organizzare e progettare il lavoro. Con mia sorpresa mi accorgevo che per loro era quasi naturale sentirsi fratelli. È su questo sentimento che si è costruita la cooperazione che ha dato lavoro a tanti giovani. Ci sono oggi tre cooperative che trovano ragione di esistere perché i giovani si vogliono bene e su questo senso di fraternità si costruiscono gli obiettivi da realizzare. Una fraternità che si costruisce sempre più nel fare impresa insieme, nel desiderio di non essere più isolati, ma pronti a costruire rapporti di fraternità con l’intera città e con il mondo».
 
So di un vecchio convento adiacente alla chiesa che è divenuto un bed and breakfast.
«Sì, una delle cooperative gestisce questo grande spazio, ristrutturato dai giovani stessi, che diventa centro di accoglienza, crocevia di uomini e donne che qui passano alla scoperta di un’altra Napoli. Vogliamo vivere un turismo con l’anima, far sentire queste persone a casa, vogliamo far famiglia con gli ospiti. Lo sforzo dei giovani della comunità è quello di rompere il forzato isolamento del quartiere, determinato storicamente da Murat con la costruzione del ponte ai primi dell’Ottocento, offrendo ospitalità, accoglienza nella valorizzazione e fruizione del grande patrimonio artistico che c’è».
 
Il recupero delle catacombe e l’apertura al pubblico sono stati sicuramente momenti significativi per il quartiere.
«Molto importanti! C’è oggi una cooperativa di giovani nata per riportare le Catacombe di San Gennaro a risplendere nella loro bellezza e poi aprirle ai visitatori. I nostri giovani hanno lavorato molto, hanno ripreso i libri in mano per studiare e poter poi illustrare, spiegare, indicare».
 
Fervono anche altre iniziative?
«È nata la cooperativa artigianale per il lavoro del legno, del ferro e infine la cooperativa artistica. Ma lo scopo primario di tutto è proprio, come dicevamo, quello di riconnettere questo quartiere con il resto del mondo, ricostruendo fraternità anche con quanti hanno avuto responsabilità in questa emarginazione. Don Giuseppe Rassello, che mi ha preceduto come parroco, ha dato la vita per questa gente. È stato lui prima ancora che io arrivassi a preparare il terreno, a gettare un seme così profondo, pagato col sangue, e che oggi dà i suoi frutti. Aveva spinto i giovani a fare teatro, a scoprire i tesori artistici dei quartieri e spingere i ragazzi a studiare».
 
 L’arte, quindi, e la fruizione dell’arte come strumento di elevazione umana e di recupero della persona.
«Era l’idea fissa di don Rassello: i monumenti, le chiese, le opere artistiche, le catacombe costituivano un patrimonio immenso che andava riscoperto, conosciuto e amato, e in tal modo il quartiere poteva rinascere, trovando la sua vera identità, recuperando la sua storia».
 
 Avete incontrato avversari in questo cammino?
«Sempre ci saranno coloro che si oppongono al bene da qualsiasi parte venga. È una battaglia che si combatte ogni giorno nella quotidianità. I veri avversari sono quelli che, pur avendo ricevuto talenti e capacità non hanno saputo o voluto metterli a frutto per il bene degli altri, per cui se vedono persone impegnate a costruire una realtà nuova basata sull’amore evangelico vanno in difensiva e attaccano. Soffriamo non poco per alcuni attacchi, ma ci conforta sapere di avere accanto a noi il cardinale che ci segue con amore».
 
 La camorra, che sappiamo essere qui presente, non vi crea ostacoli?
«La camorra c’è, la conosciamo, conosciamo i loro figli, i quali vengono da noi e noi li accogliamo. Anzi sono i padri che dicono spesso ai figli di andare in chiesa e studiare. C’è in tanti di loro la consapevolezza del male e il desiderio che almeno per i figli qualcosa possa cambiare. Il bene deve dilagare e restringere gli spazi del male. È la speranza di Gesù e anche la nostra».

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