Un Trittico romano e un regista

Finalmente in scena il gruppo di tre opere, ciascuna in un atto, di Puccini, con la regia di Damiano Micheletto. Da vedere e da sentire, anche per una riflessione sull’attività dei registi d’opera, oggi talvolta soverchianti i direttori e i compositori: amano il teatro musicale, la musica che ne è l’anima?
Gianni Schicci

E così è andato in scena il Trittico di Puccini, accolto a suo tempo con riserve nel 1918 a New York e nel 1919 proprio al Costanzi di Roma, dove si rappresenterà fino al 24 aprile.

 

Allestire un lavoro così complesso non è cosa facile né scontata, tant’è vero che spesso le tre opere in un atto ciascuna di cui è composto vengono rappresentate da sole, in particolare il Gianni Schicchi. Puccini ha tentato la carta di un affresco che parte dalla storia cupa del Tabarro – adulterio sulla Senna, vita grama di un battelliere, amore finito con la morte –, passa alla tragedia dolente di una suora, suor Angelica, ragazza madre punita con la reclusione in convento dove muore suicida, e chiude con la risata allegra dell’astuto ladro falsificatore di testamenti, il fiorentino Schicchi, e il matrimonio di due fidanzatini appassionati.

 

La musica pucciniana trova varie corde: di amarezza mahleriana è intrisa l’orchestrazione del Tabarro, carica di suggestioni  francesi e di invenzioni timbriche, si fa più trasparente nell’atmosfera misticheggiante tanto fin de siècle dell’Angelica, ripensa al ritmo del Falstaff verdiano nello Schicchi, brillante rivisitazione con falsi concertati e dolci romanze liriche, così tipiche del compositore. Puccini si è fatto in tre e così pure il regista, oggi molto valutato, Damiano Micheletto, il quale, come altri colleghi, si propone di rinnovare l’opera lirica mediante allestimenti innovativi e recitazioni teatral-cinematografiche suggestive.

 

Perciò, l’unica scena è costituita da alcuni grandi container entro cui si svolge l’azione del Tabarro, ambientata oggi in una zona portuale come assemblea dei vinti della vita nelle squallore e nella fatica. La storia  tra Michele, Giorgetta e Luigi (i due amanti) si attua in questa notte fumosa, un po’ come la musica oscillante e tristissima ed è un'idea indovinata. Anche perché Micheletto vi immette un senso onirico nel dar corpo con la presenza dei portuali alle angosce di Michele, il marito tradito, come fosse un balletto da musical.

 

I container si sollevano e si apre l’interno squallido di un carcere femminile – dovrebbe sostituire il convento del libretto – luogo di pena più che di preghiera, con le poliziotte sadiche e la povera Angelica, tormentata, priva del figlio – verrà a sapere che è morto dalla zia crudele – e infine suicida. E qui forse Micheletto esagera e finisce col violentare il testo. Le parole e la musica – invocazioni, preghiere, recitazione del personaggio di Angelica – risentono dello stile lirico-floreale dei primi del '900 a formare una parentesi di dramma trasognato tra la cupezza del Tabarro e l’ilarità dello Schicchi, mentre al contrario la violenza della messinscena, l’affollamento dei personaggi toglie il respiro “elegiaco” all’opera: la musica dice una cosa e la scena un’altra.

 

L’equilibrio ritorna invece nello Schicchi, una commedia in costume attuale scatenata, vivacissima, in cui il regista ama con-fondere i personaggi, farli piroettare come in un film surreale e farci alla fine sorridere. Per poi rinchiudere il tutto nei container e unificare così il Trittico nell’idea della maternità, rapita o desiderata, perché Lauretta è incinta, altra “licenza poetica” (?) di Micheletto. Ma sarà così? A ben leggere il libretto e ad ascoltare la musica ci si fa l’idea che è la parola “morte” la più usata – morire per amore – così che ancora una volta la poesia pucciniana si esprime in quel delirio morte-vita che è forse l’anima dell’anima del compositore, su cui il regista ha cercato di aprire uno scandaglio interpetativo, com’è giusto.

 

La direzione musicale è affidata alla giovane ma sicura bacchetta di Daniele Rustioni, al suo debutto all’Opera: vivace, passionale, trascinatore di un'orchestra volenterosa e capace di grumose sonorità come di dolci trasparenze. I cantanti attori sono sottoposti a un vero tour de force, dato che raramente stanno fermi: devono cantare sdraiati, mentre sollevano persone, mentre fanno l’amore, si agitano, corrono, eccetera eccetera. Micheletto non gli dà tregua, è come essere al cinema. Roberto Frontali ha una voce calda e forte, è attore formidabile nel Tabarro e nello Schicchi; Patricia Racette, voce molto bella, è sia Giorgetta che suor Angelica, ed è un miracolo come cantante e attrice; bravo, ma talora affaticato il tenore Maxim Aksenov dovendo recitare in moto perpetuo e cantare in tonalità acute e asprigne; freschi Ekaterina Sadovnikova come Lauretta e Antonio Poli come Rinuccio; possente Violeta Urmana, terrea zia principessa nell’Angelica.

 

Spettacolo, già dato a Vienna e a Copenaghen, assai interessante: da vedere e da sentire. Anche per una riflessione sull’attività dei registi d’opera, oggi talvolta soverchianti i direttori e forse pure i compositori: amano il teatro musicale, la musica che ne è l’anima? Senza per questo riproporre il passato, la riposta appare sempre più necessaria.

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