Il sipario di Mimmo Paladino, con Il Trionfo della Morte rivisitato in termini di orrore novecentesco, si solleva e appare la scena cupa delle streghe – mostri mediterranei del male – che da subito seducono il guerriero Macbeth ma, ancor più, la moglie, la Lady, accompagnandola sino alla fine come una presenza costante, ispiratrice di ogni sua azione pur di avere il potere. Scene in bianco e nero, notti continue, figure emergenti dal buio: così le pensa Paladino, in costumi attuali, per lo più militareschi.
La regia di Mario Martone è eccitata, barocca, tumultuosa, guarda all’oggi. Il dramma di Shakespeare, che affascinò Verdi, si dipana nel racconto seducente del male, del suo inganno e del dolore che provoca. Non per nulla si sceglie di presentare il doppio finale dell’opera: il primo, della versione 1847, con il “pentimento” di Macbeth, e il secondo, del 1865, con il trionfo vittorioso sul male. Scelta forse per qualcuno discutibile, ma che rende ragione dell’animo con cui Verdi, a distanza di tempo, guardò alla lotta tra il bene e il male nell’umanità.
Il maestro si incontrò con il Bardo per la prima volta in quest’opera, ed anche con il mondo fantastico della magia: ne fu coinvolto, a giudicare dalla bellezza della musica nella scena delle apparizioni nel terzo atto, dalla danza degli spiriti (il classico balletto è stato “tagliato”), un coro che Martone ha affollato di streghe, ninfe nude, tinte aspre, quasi opprimenti. Ma in alcuni casi la regia ha avuto momenti bellissimi. Mi riferisco al coro “Patria oppressa”, eseguito con una delicatezza rara dall’orchestra e dal complesso, sullo sfondo delle rovine di Gaza: commovente e rabbrividente.
Meno bene, secondo noi, il video proiettato durante il preludio alla scena del sonnambulismo: una musica di un tale altissimo dolore che va solo ascoltata, interiorizzata. I registi forse potrebbero credere di più alla forza espressiva della musica pura, senza riempire la scena di commenti o di altre personali “creazioni”. Verdi qui è grandissimo, va lasciato parlare.
Dal punto di vista musicale, a Firenze l’edizione è stata davvero notevole. I protagonisti, intanto: Luca Salsi è ormai un Macbeth più che rodato, voce potente, mimica espressiva, coinvolgente, magari talora stesse più attento alle sfumature; la Lady di Vanessa Goikoetxea è forte negli acuti, lanciati d’impeto, eccelle nel sonnambulismo in modo particolare, forse potrebbe agire di più in cesello sul canto in pianissimo; perfetto il Banco di Antonio Di Matteo e il Macduff di Antonio Poli, bella voce da modellare. Applausi meritati al coro.
Un punto forte della rappresentazione è stata la direzione appassionata, tagliente, anche calorosa, eppure attenta alle sfumature, di Alexander Soddi. Dal preludio con il canto surreale degli strumenti, a certi tocchi degli ottoni, anche negli accompagnamenti, al ritmo sfumato di certi momenti – l’aria “Sangue a me quell’ombra chiede” –, alla liquidità delle danze, agli insiemi terrificanti: correttezza, sincerità, e un’orchestra piena di vita e di colori.
Un’opera in nero, dunque. Eppure, il cuore grande di Verdi lascia versare le lacrime sia sull’umanità dolente, sia sulle due vittime del potere. Una lezione straordinariamente attuale.