Un incoraggiamento alla fine del conflitto

Il sì dell’Onu alla Palestina, come stato osservatore, offre una cornice internazionale al processo di pace con Israele. Ora si deve lavorare all’accordo rapidamente. Il parere di Pasquale Ferrara, politologo ed esperto di questioni internazionali
Abu Mazen all'Onu

«La dicitura “Stato osservatore” consentirà alla Palestina di fare le stesse cose che fa il Vaticano» afferma Pasquale Ferrara, politologo ed esperto di questioni internazionali, commentando la scelta dell’Assemblea generale delle Nazioni Uniti di accogliere il progetto diplomatico di Abu Mazen. Intervenire nei dibattiti e partecipare ai lavori delle diverse commissioni sono però questioni formali. Vorremmo invece approfondire i risvolti di questa apertura.

Cosa comporta esattamente la risoluzione dell’Onu?

«Il voto attribuisce una maggiore ufficialità alla presenza dello Stato palestinese nell’Assemblea generale anche in termini di diritto di parola e di organizzazione dei lavori dell’Assemblea stessa. Si tratta di uno stato dal punto di vista formale, ma non è membro perché per essere ammessi serve una risoluzione del Consiglio di sicurezza, strada che in questo momento non è percorribile. Il vero nodo non è formale ma politico. L’attribuzione però della qualifica di stato non crea lo Stato palestinese sul terreno, ma cambia in modo rilevante i termini politici della questione israelo palestinese, cioè rappresenta la richiesta implicita della comunità internazionale di accelerare la creazione di questo stato e di favorire il processo di pace.

La politica internazionale non è fatta solo di hard power e cioè di potere militare ed economico ma è fatta anche di simboli e il significato di questo “sì” va nella direzione della simbologia politica ed è altrettanto rilevante degli altri fattori. Nessun trionfalismo perché non c’è stata nessuna risoluzione della questione ma i termini di riferimento cambiano in maniera rilevante».

Perché si teme tanto il ricorso della Palestina alla corte penale internazionale?

«L’attribuzione delle qualifica di Stato, in linea di principio, potrebbe consentire alla Palestina di utilizzare la Corte penale chiamando in causa l’autorità israeliana per crimini di guerra, ad esempio. Non credo sia l’intenzione della leadership palestinese perché le priorità sono altre. Dal punto di vista giuridico, poi, le interpretazioni su questo piano sono controverse. Questo timore nei fatti non è fondato e viene usato in maniera strumentale per giustificare i no».

Gli Stati Uniti si appellano a questo rischio…

«Ripeto: è un elemento per giustificare un voto contrario che politicamente è insostenibile, serve solo serve a sostanziare una posizione negativa. I motivi del “no” sono politici e non tanto giuridici, questi sono cavilli, ma non la questione centrale. Il punto è l’alleanza forte di tutti i presidenti democratici e repubblicani della storia americana dal secondo dopoguerra in poi con Israele. Questo è un punto strategico della loro politica».

Le reazioni di Israele si stanno limitando al piano diplomatico, se ne rischiano altre?

«La vicenda del sì va metabolizzata dalla comunità internazionale. Misure di rappresaglia di varia natura non sono utili. Questo “sì” non è punto finale di un processo ma una delle varie tappe su cui Israele ha diritto di dissentire, ma non compromette nulla di quanto è stato costruito. Un elemento positivo è che ora invece di parlare solo del processo di pace, cosa che dura da sempre bisogna parlare di accordo di pace. Tutti sono d’accordo nel sostenere che lo Stato palestinese nascerà nel momento in cui ci sarà un accordo diretto e bilaterale. Lo stiamo dicendo dal 1978, dai primi accordi di Camp David con la presidenza Carter. Da allora questo approccio non ha prodotto alcunché. l’accordo diretto fra le parti va incoraggiato da una cornice internazionale e quella giuridicamente più appropriata è l’Assemblea generale. Che arrivi da qui un incoraggiamento alla fine del conflitto è auspicabile».

L’Europa si è presentata divisa sulla questione…

«Gli Stati membri dell’Europa hanno deciso di mantenere la politica estera nell’ambito delle prerogative nazionali. Quindi non è l’Europa ad essere divisa ma gli stati europei, perché l’Europa come istituzione non ha poteri per decidere una politica estera comune. L’Unione europea, ad oggi, ha inciso solo per gli aiuti economici a Gaza e nella Cisgiordania ma non dal punto di vista politico. E non perché le istituzioni di Bruxelles sono incapaci ma perché le capitali degli stati non vogliono attribuire a Bruxelles nessuna competenza in politica estera. Berlino, Roma, Londra, Parigi sono responsabili nel non voler una politica estera comunitaria. L’Europa fa ciò che gli stati gli fanno fare. Positiva invece la posizione unitaria almeno di quei Paesi che hanno interessi e propensione mediterranea e mediorientale come Francia, Spagna, Italia e Grecia: un segnale importante».

Come interpreta il sì dell’Italia?

«Il “sì” dell’Italia viene dopo anni di incertezza nei confronti delle questioni mediorientali. E’ sembrato per molto tempo che il pendolo pendesse per i palestinesi. Nell’ultimo decennio invece dalla parte di Israele. Credo che questo voto rimetta ordine. Il Governo ha precisato che questo non è un voto contro, né prende le distanze dall’amicizia con Israele, ma al contrario è un modo, con gli altri Paesi, di rilanciare il processo di pace e non di sostituirsi al negoziato che ci sarà tra le parti. La cornice internazionale, come la decisione dell’Assemblea generale, rafforza non tanto l’Autorità palestinese ma il processo di pace».

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