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Cultura > Danza

Un amarcord malinconico e gioioso per Micha van Hoecke

di Giuseppe Distefano

- Fonte: Città Nuova

Con lo spettacolo “La dernière danse?”, riallestito da Miki Matsuse, il Balletto di Roma fa rivivere gli anni dell’allora quarantenne coreografo e danzatore russo-belga. Al Ravenna Festival

ph Simone Manzato

Da quel jukebox d’altri tempi posizionato in fondo al palcoscenico, ritorna un mondo nostalgico, lontano, ma non troppo, evocato da musiche e canzoni che hanno segnato storie, ricordi, passioni, luoghi, eventi piccoli e grandi di quel grande artista, scomparso appena 4 anni fa, che è stato Micha van Hoecke. Era il 1984 e con questo spettacolo l’allora quarantenne coreografo russo-belga ‒ cresciuto come danzatore alla scuola di Maurice Bejart e al Mudra, quindi a Parigi immerso tra gli umori esistenzialisti e i vivaci anni ’60, poi in Italia, a Castiglioncello, dove con la sua storica compagnia L’Ensemble, trovò casa ‒, compose un affresco della sua vita con reminiscenze famigliari, e soprattutto parigine, di anima zingara. Rivedere oggi, in una nuova edizione, La derniere danse? (debutto al Ravenna Festival) rappresenta un salto in quel passato segnato dalla vivace creatività di un teatro-danza dal respiro multidisciplinare, e che Miki Matsuse, compagna d’arte e di vita di van Hoecke, ci fa rivivere rimontandolo oggi (attraverso un lavoro di recupero dalla propria memoria e dallo studio di documenti nella libreria di famiglia) per i danzatori del Balletto di Roma.

ph Simone Manzato

Nostalgia? Anche. Ma che ventata di aria fresca che ancora si respira! Chi non c’era ancora in quegli anni, può fare i conti oggi con l’apprendere e immaginare un linguaggio coreografico che ne contiene altri, quasi per gemmazione. Quel punto interrogativo del titolo, «…quella domanda senza risposta – ricorda Matsuse – è come se stesse a indicare qualcosa che continua, che non deve finire!». La bella scena decorata da festoni di piccole luci, colorate come le molte sedie sparse e usate continuamente, e con attorno delle impalcature metalliche, è uno spazio della memoria trasformato in una balera dove scorrono gli anni, con gli eventi e gli amori di Misha, la gioia di vivere e la solitudine, l’esuberanza e l’angoscia che lo animavano. Dai variegati costumi vintage delle più diverse fogge, dagli atteggiamenti di uomini e donne che si incontrano e si lasciano tra incursioni di luci e improvvisi scoppi da fuori a ricordarci anche i tempi bui, i ballerini entrano ed escono dalla scena alternando balli di coppie, unisoni, duetti e assoli, mixando generi, e citando, anche, esperienze coreografiche dell’epoca (come il rimando al celebre Boléro di Béjart in quel cerchio che i danzatori seduti compongono attorno ad una danzatrice in abito rosso? O a Le jeune homme et la mort di Roland Petit, col danzatore esistenzialista dall’istinto ferino, nella mitica salopette di jeans, qui interpretato dal bravo Francesco Moro).

ph Simone Manzato

Scorrono soprattutto le musiche e le canzoni amate da Misha nella giovinezza, ognuna un quadro coreografico, una cartolina dell’anima: da Smoke gets in tour eyes dei The Platters, gruppo che ritorna con altri motivi canori, a Georgia on my mind di Ray Charles, da A whiter shade of pale dei Procol Harum, a Little Richard e Neil Sedaka, alle malinconiche melodie di Cesária Evora, al ritmo brasiliano di Chico Buarque, per finire con la struggente Avec le temps di Leo Ferré. Un addio poetico in questo amarcord malinconico e gioioso che è La derniere danse? prolungato nel tempo.

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