Tunisia, chi ha vinto il referendum?

Il presidente tunisino Kais Saied e i suoi sostenitori hanno celebrato nei giorni scorsi quello che ritengono un trionfo nel referendum costituzionale che ha trasformato la Tunisia in una repupplica iper-presidenziale, mettendo la parola fine alla decennale e controversa esperienza della “primavera araba”.
Cittadini tunisini sono scesi in piazza per festeggiare dopo la fine del voto su una controversa nuova Costituzione. Foto AP/Riadh Dridi

Alla fine di un anno (e di un decennio) controverso, la Tunisia ha votato il referendum per adottare una nuova Costituzione, che seppellisce quella nata nel 2014 dalla “primavera araba”. Più che la Tunisia, a votare è stata in realtà una minoranza: il 30% degli aventi diritto. E di questo 30%, almeno il 5% ha votato contro la nuova Costituzione, fortemente voluta e, in fase di bozze, perfino personalmente integrata dal presidente Kais Saied. Secondo fonti vicine al presidente tunisino, il referendum è stato un trionfo, con il 94,60% di sì e solo il 5,40% di no. Mettendo però fra parentesi l’astensionismo (intorno al 75%) e la mancanza di quorum (nessuna soglia di sbarramento), viene da chiedersi, come fa un provocatorio articolo apparso in questi giorni sul quotidiano al-Sabah: “Saied ha vinto con il 25% o ha perso con il 75%?”.

In pratica ha approvato la nuova Carta costituzionale lo stesso numero di elettori (forse un po’ meno) che aveva eletto Saied Presidente della Repubblica, nell’ottobre 2019. Saied, giurista e professore di diritto costituzionale, ha così raggiunto un altro dei suoi obiettivi, dopo avere unilateralmente esautorato il premier Hichem Mechichi, licenziato ministri, sospeso il Parlamento e assunto un interim molto ampio.

Con la nuova Costituzione presidenzialista (molto presidenzialista), il Capo dello Stato aumenterà il controllo su Governo, Parlamento e Magistratura, sarà arbitro delle leggi e Capo delle Forze Armate. Potrà inoltre contare su 2 mandati di 5 anni ciascuno, prorogabili di fatto. La nuova Costituzione, poi, non contiene disposizioni sull’impeachment del presidente, come prevedeva la precedente Legge Fondamentale.

Per la prima volta in un Paese arabo, inoltre, l’Islam non verrà considerato religione dello Stato (anche se poi si dice che “lo Stato deve lavorare per raggiungere gli obiettivi dell’Islam”). Una disposizione che sembra avere poco a che fare con il concetto di laicità, ma che rappresenta probabilmente solo una stilettata a Ennahda, il partito ispirato dai Fratelli musulmani che aveva la maggioranza relativa (52 seggi su 217) nel disciolto Parlamento monocamerale. E che condizionava, in fragile alleanza con Qalb Tounes e la formazione islamista El Karama, il governo tecnico di Hichem Mechichi (durato pochi mesi).

Va detto che l’affluenza alle urne dei tunisini nei quasi 10 anni del precedente ordinamento non è mai stata elevata: dati e sondaggi valutano in circa il 66% i non votanti abituali, che salgono al 75% considerando solo donne e giovani. L’affluenza ai seggi per il referendum, a ben considerare, non è stata però così negativa come a noi potrebbe sembrare, anzi in certo modo è stata addirittura al di sopra delle attese. Raggiungere il consenso del 25-27% dei votanti in un Paese dove raramente l’affluenza ha superato il 40%, significa, letto da Saied e dai suoi sostenitori, un notevole successo. Secondo un test di Sigma Conseil (la principale società maghrebina di sondaggi), nel 75% di elettori che non sono andati a votare, solo il 21% aveva aderito al boicottaggio promosso dalle opposizioni e dal Fronte di Salvezza Nazionale (5 partiti, tra cui Ennahda, e 5 associazioni della società civile), mentre il 54% si era dichiarato “disinteressato”: secondo il sondaggio, ad oltre la metà della popolazione tunisina in età elettorale la politica non interessa, non conosceva il contenuto del referendum ed era indifferente ai poteri che il presidente si sarebbe attribuito con la vittoria.

L’opposizione interna tunisina non ha accettato la lettura del referendum costituzionale fatta da Saied, che ha invece raccolto a livello panarabo molti consensi tra i commentatori simpatizzanti dei regimi autoritari più o meno dittatoriali. Il Fronte di Salvezza Nazionale ha definito i risultati del referendum “un fiasco e l’intero processo di voto una recita”.

Shadi Hamid, ricercatore presso il Center for Middle East Policy della Brookings Institution di Washington, ha scritto su Dawn (rivista fondata non a caso da Jamal Khashoggi): “Per oltre dieci anni, mentre l’economia tunisina arrancava e soffriva, anche i tunisini hanno sofferto a loro volta. Kais Saied ha promesso loro una vita migliore. Che cosa avevano da perdere? Purtroppo la risposta è: molto. L’economia non è qualcosa cui un uomo può rimediare da solo. La democrazia però è qualcosa che un uomo può distruggere se un numero sufficiente di persone glielo lascia fare”.

Il riferimento è evidentemente alla grave situazione dell’economia tunisina a forte rischio di default, con inflazione fuori controllo, carenza di beni di prima necessità, disoccupazione endemica e mancanza di servizi pubblici. Questi elementi uniti a corruzione, spartizione del potere e spesso incompetenza, hanno alimentato nella gente la convinzione che la democrazia in sé non ha nessun potere di migliorare le condizioni di vita. E questo non è un sentire soltanto dei tunisini, ma è diffuso in tutto il Nordafrica e il Medio Oriente. La gente pone la sua speranza (quando riesce ad intravvederla) in leader o governi capaci di produrre (o spesso solo promettere) condizioni di vita migliori, non importa attraverso quale forma di governo.

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