Miami. Mar-a-Lago dista poco più di cento chilometri dalla città dove mi trovo in questo momento. Sembra che la distanza sia però abissale, perché qui la gente, in quel divertimentificio senza fine che è South Beach, non sappia nemmeno che a poche decine di chilometri si sta decidendo il futuro di milioni di persone e dell’intera geopolitica mondiale. E nello stesso tempo la città sembra essere talmente mimetica al modo di vivere e di presentarsi del presidente Trump – e al suo Maga (i cappellini rossi sono in vendita ovunque), cioè Make American Great Again, facciamo che l’America (cioè una parte di essa, gli Usa) sia di nuovo grande – che non ci si stupirebbe se facesse la sua apparizione abbronzatissimo in bermuda sulla sabbia con Zelensky invece magrolino e bianco come un cencio.
L’incontro di domenica 28 dicembre nella residenza privata del presidente Usa di Mar-a-Lago – nelle Keys, cioè una delle tante isolette a sud di Miami collegate da un’incredibile autostrada lunga quasi 200 chilometri – tra lo stesso Donald Trump e Volodymyr Zelensky ha forse segnato un passaggio decisivo nella volontà di porre fine alla guerra del Donbass, anche se la vicenda resta sospesa tra un ottimismo di facciata e nodi politici ancora irrisolti.
I progressi, innanzitutto, se ci sono stati: il vertice ha prodotto un clima inaspettatamente disteso rispetto agli scontri del passato. Zelensky ha dichiarato che «il piano di pace in 20 punti» è concordato ormai al 90%, con un’intesa quasi totale sulle garanzie di sicurezza, definite «concluse al 100%» da Kyiv e al «95%» da Washington. Trump ha evocato un futuro di prosperità economica, ipotizzando una zona franca e un massiccio piano di ricostruzione finanziato da capitali statunitensi, parlando di un «accordo possibile entro poche settimane».
Parallelamente, si riscontrano arretramenti e rischi, il principale dei quali resta la stessa triangolazione da tempo messa in atto dal presidente Usa con Mosca e con Kyiv, che mantiene il pallino nelle sue mani e che sembra obbligare con la forza i due altri vertici della triangolazione a pensarla come lui, ma con risultati limitati. Trump ha in effetti sentito Putin al telefono poco prima del summit, definendolo «serio sulla pace», anche se Zelensky ha ricordato fortemente che, proprio mentre si discuteva, i droni russi colpivano ancora le città ucraine e le infrastrutture elettriche del Paese. Il timore di Kyiv è che la fretta di Trump di chiudere il conflitto – l’ossessione del tycoon, ormai è evidente, è quella di ottenere il Premio Nobel per la pace – possa tradursi in una pressione indebita su uno Stato sovrano perché accetti condizioni capestro, nonostante il coinvolgimento formale dei leader europei nelle consultazioni.
Restano dunque non poche domande irrisolte, dunque, un «5%» che in realtà concentra i nodi irrisolti che non sono residuali. In primo luogo quello dei territori: il destino del Donbass resta il “buco nero” della trattativa. Trump lo ha definito «conteso», mentre Zelensky esclude categoricamente cessioni o autonomie senza precisi referendum, locali e nazionali. Non può perdere la faccia dinanzi ai suoi concittadini, lo si capisce.
Ancora, resta la domanda sulla forma della neutralità di Kyiv. Non è chiaro se le garanzie di sicurezza promesse siano un’alternativa definitiva all’ingresso nella Nato. L’entrata eventuale di Kyiv nell’Unione europea, ipotizzata per il 2027, quindi domani, da Mosca viene ammessa a priori ma con tempistiche molto, ma molto più ampie. E poi non si capisce ancora quale potranno essere le garanzie offerte agli ucraini per una sicurezza che metta al riparo il Paese da eventuali altre spinte egemoniche provenienti da Mosca. Putin vuole entrare nella storia come il presidente russo che ha ridato al suo popolo l’orgoglio di un grande Paese: sulla trattativa aleggia questa determinazione, che fa la pari con il sogno del Nobel per Trump.
Last but not least, ci si interroga sulla reale volontà di Putin di arrivare alla pace nel Donbass: resta pesantissimo il dubbio se il Cremlino accetterà mai un’Ucraina militarmente forte, con gli 800mila soldati previsti dal piano per l’esercito di Kyiv, o se stia solo prendendo tempo. La triangolazione di Putin sembra siderata da quest’incertezza fondamentale. Sul terreno Mosca continua ad attaccare, anche se senza vittorie strabilianti e a costo di perdite spaventose.