Tre scuole cristiane attaccate in Kashmir

Lo scontro tra religioni è solo un paravento di ben altri interessi che hanno di mira l’amministrazione e il governo. Un richiamo al ruolo dei media    
Kashmir proteste
Voci sul rogo del Corano portano all’attacco di chiese e scuole cristiane” recita il sito della Conferenza Episcopale indiana. “Nuova ondata di violenza accesa dalla dissacrazione del Corano a New York” fa eco The Hindu, autorevole quotidiano del sud India noto per le sue posizioni equilibrate e non di parte.

 

 

È quanto è avvenuto in questi giorni nel Kashmir, lo stato più a nord dell’India a larga maggioranza musulmana, dove i cristiani sono una minuscola presenza, per altro assai apprezzata per le scuole ed istituzioni assistenziali, che, come in altre parti del Paese, offrono una testimonianza riconosciuta da tutti di rispetto della vita e dei valori umani. Gli scontri di questi giorni non sono semplicemente diretti alla comunità cristiana. Il Kashmir, infatti, è dalla fine degli anni ’40 conteso fra India e Pakistan, una vera polveriera che di tempo in tempo esplode, spesso con manifestazioni abilmente manipolate dalla politica che usa la tensione fra musulmani ed indù per interessi contingenti. In effetti, spesso la zona ha offerto rifugio e centri di addestramento a vari gruppi terroristici, anch’essi abilmente usati da diversi partiti politici. Per decenni ne ha fatto le spese la popolazione. La gente continua a morire nelle vallate del Kashmir nel nome della religione, usata come paravento per ben altri interessi.

 

Gli attacchi di questi giorni, sebbene accesi dalla questione del Corano, non sono quindi, motivati da tensioni fra cristiani e musulmani. Lo stesso The Hindu afferma che «lunedì mattina un gruppo politico affiliato a Syed Ali Shah Geelani,leader islamico del movimento Tehreek-e-Hurriyat, ha approfittato dell’oltraggio pubblico causato dalla dissacrazione del Corano per attaccare palazzi che ospitano istituzioni amministrative e del governo.» Come si sa ci sono stati dei morti. Cosa tutt’altro che nuova nel contesto della regione.

 

Le tensioni del Kashmir, che parevano assopite da qualche tempo, sono riesplose tre mesi fa e, nuovamente, la situazione sta peggiorando con pericolo di nuove escalation di violenza. Tutto questo non ha nulla a che fare con quanto sta succedendo dall’altra parte del mondo con minacce farneticanti di roghi del Corano. Ovviamente, sono occasioni che offrono la possibilità per nuove violenze e, quindi, nuove vittime.

 

Il problema, come già chiaramente sottolineato la scorsa settimana da un altro pezzo su Città Nuova online, non è di carattere prettamente religioso. E’, piuttosto, ancora una volta l’uso dei media che rende problematiche situazioni già di per sé a rischio. In questo senso il titolo della notizia apparso sul sito della Conferenza episcopale indiana (CBCI) è significativo. Quel ‘voci’ mette in rilievo proprio non una questione reale, ma un problema di comunicazione. D’altra parte i media, da una parte, hanno amplificato l’idea di un gruppo pressoché insignificante negli USA assicurando ad uno sparuto, ancorchè sconosciuto, gruppetto di pastori e fedeli una notorietà mondiale e, dall’altra, stanno ora ampliando la reazione di alcuni gruppi sporadici in un angolo del sub-continente indiano, che fra l’altro vive una situazione tutt’altro che facile.

 

Notizie come quella dei possibili roghi del libro sacro dell’Islam possono benissimo essere usate per aizzare violenza e creare una maggiore instabilità. Ciò che colpisce è l’ottusità proprio dei media occidentali, che paiono non capire che, dando rilievo a queste notizie e mettendole nella prospettiva di assalti islamici a cristiani, non fanno altro che fomentare odio e possibilità di scontri, oltre che mettere a repentaglio quella comunità cristiana di cui si fanno paladini, spesso, fra l’altro, in un contesto di politica mediatica tutt’altro che fedele a valori non solo cristiani ma umani.

 

Oggi la Repubblica propone un interessante commento di Odifreddi, provocato proprio da questi avvenimenti: «Se fossimo tutti atei». Proprio il mettere da parte Dio, è, spesso, il motivo vero d’incomprensione fra cultura di radice cristiana e quella originaria di altri contesti dove non è concepibile l’uomo se non in relazione con l’Assoluto, in qualsiasi modo venga chiamato e percepito. Il punto non è, dunque, di ignorare Dio, per risolvere i problemi, ma, piuttosto, di cogliere l’uomo, come tale, l’uomo integrale, mettendolo al centro dell’interesse mediatico e, dunque, anche delle notizie che si mandano in giro per questo villaggio globale.

 

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