Tra inchiesta e giustizia: quello che la storia non può dire

Marco Luppi
Coloro che, in queste settimane, si sono recati a vedere il film Romanzo di una strage, più o meno coscientemente hanno compiuto un’operazione lungimirante sotto diversi aspetti: sia dal punto di vista storico, per l’opportunità di calarsi dentro le vicende del periodo stragista che ha inizio con la bomba di piazza Fontana (12 dicembre 1969), una parte della storia d’Italia che tanto i giovani che gli adulti è importante conoscano e/o non rimuovano; sia dal punto di vista della propedeutica politica, dal momento che la pellicola riporta le inquietudini, i dubbi laceranti di un periodo convulso sul quale le dinamiche processuali hanno fatto chiarezza ma non sempre giustizia, costringendo ancora oggi il cittadino consapevole a guardare a più dimensioni, a poggiare la ricerca della verità sulle carte e i documenti, ma anche sul buonsenso di quanti hanno dovuto e voluto rimettere insieme le componenti sociali e politiche delle istituzioni e della civitas.

La guerra civile ed ideologica, che ha contrassegnato la conclusione del secondo conflitto mondiale sul suolo italiano, ha traghettato il Paese nel pieno della guerra fredda e delle sue antinomie, esasperate dalla posizione geografica che faceva dell’Italia un baluardo fondamentale tanto per le aspettative atlantiche che per il mondo comunista. Nel mezzo, interessi espliciti ed oscuri hanno concesso spazio a tentativi di colpo di Stato (golpe Borghese, Piano Solo), alla connivenza di servizi segreti e apparati deviati dello Stato in cerca di una normalizzazione autoritaria e tranquillizzante per il futuro strategico del Mediterraneo, alle manovre destabilizzanti del mondo eversivo di destra e di sinistra che sognava svolte rivoluzionarie assecondanti le proprie Weltanschauung, interpretazioni del reale in vista dello sviluppo di una società nuova.

Il film ripercorre ed interpreta le vicende storiche che dalla bomba di piazza Fontana giungono fino all’assassinio del commissario Calabresi (17 maggio 1972), vice-responsabile della squadra politica della Questura di Milano, che da quell’osservatorio collaborò alle indagini sulla strage, ma già da diverso tempo aveva fronteggiato il crescere della tensione in città tra manifestazioni di piazza (frequentemente culminanti in scontri tra militanti e forze dell’ordine) e il confronto serrato di ideologie operanti nell’alveo di una diversa narrazione per il Paese. Mentre la pellicola presenta solo sullo sfondo la figura di Giangiacomo Feltrinelli, sono invece centrali i riferimenti all’operato del mondo anarchico milanese (la centrale che faceva capo a Giuseppe Pinelli), pesantemente sotto torchio nelle prime fasi delle indagini, e gli ambienti neofascisti veneti di Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale, con nomi che sono considerati in veste di ideatori o esecutori della strage (Franco Freda, Giovanni Ventura, Nino Sottosanti e, nei titoli di coda, Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Giancarlo Rognoni, Carlo Digilio), ma che i processi non hanno condannato in via definitiva pur riconoscendone le responsabilità[1].

Ad un’opera cinematografica va concessa la libertà della rappresentazione, le scelte stilistiche e di sceneggiatura, che possono poi essere criticate e precisate, come puntualmente è avvenuto sui giornali di qualsiasi orientamento e corrente, in modo particolare in merito alla riproposizione della teoria della doppia bomba sostenuta nel recentissimo volume d’inchiesta di Paolo Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana. Ma al regista Marco Tullio Giordana è stato riconosciuto anche il merito di aver rilanciato il dibattito su una parte sofferta della storia del Paese, con il pregio di aver voluto rappresentare alcuni passaggi fondamentali e controversi per quanti hanno vissuto quegli anni. Appaiono significative le angolature dedicate alla stagione politica conflittuale ed il ruolo dei servitori dello Stato, ben rappresentate dai dilemmi del personaggio di Aldo Moro, i contrasti con il Presidente Saragat, le paure dei responsabili dei dicasteri, travagliati dal dubbio sulla proclamazione o meno dello stato d’emergenza. Accanto al ruolo dei politici colpisce la scarsa protezione, se non la vera e propria solitudine in cui furono lasciati alcuni degli uomini di apparato più coinvolti: si pensi a Calabresi, la feroce campagna di delegittimazione da parte di Lotta continua (poco sviluppata nella pellicola), con la quale si accusò il commissario, neppure presente nella stanza degli interrogatori, della morte di Pinelli, sancendo di fatto la sua esposizione mediatica e la “esecuzione” successiva; si pensi ai giudici impegnati a seguire le ipotesi investigative (Paolillo, Calogero, Stitz) al netto dei depistaggi dei servizi segreti e di apparati dello Stato che “protessero” reti di connivenze e tentativi di svolte autoritarie.

La libera ricerca della verità è dunque passata attraverso emarginazioni, sofferenze, il racconto di molteplici verità che ancora travagliano una società come quella italiana che da sempre soffre di dietrologie, sottili distinguo che lasciano aperte voragini di dubbi, diverse interpretazioni che riportano continuamente in luce l’incapacità di un sano confronto e di un vero ascolto di cui la classe dirigente ed intellettuale è costantemente vittima.

Che convenienza ha uno Stato nel perpetuare la narrazione di una doppia, tripla “realtà”? Quale speranza si pensa di poter consegnare alle giovani generazioni se non si ha il coraggio di rivelare che siamo stati condizionati, umanamente e comprensibilmente deboli, costretti a scegliere davanti a continui bivi e senza poter conoscere le conseguenze di quelle scelte?

Certamente, la sicurezza nazionale, gli equilibri internazionali costruiti su decenni di accordi e pacifiche/belliche collaborazioni, tutto ciò motiva la prudenza, la secretazione degli archivi, la preservazione di persone coinvolte e ancora viventi. Ma chi dice che doverose ammissioni, il ripristino di certe verità, la definizione delle responsabilità debbano avvenire a discapito di qualcuno o di qualcosa? Non si potrebbe invece intraprendere un dialogo che porti al sereno dispiegarsi di una storia che passa attraverso errori, patteggiamenti o dolorose decisioni? Non farlo, priva tutti di un percorso di crescita necessario ed urgente, a maggior ragione oggi che la società è attraversata da un clima di sfiducia e di delusione che sfocia sovente in discorsi e gesti a volte estremi. Quando si parla del valore riconciliatorio della memoria e del ruolo della storia si rimane ancora dentro un orizzonte troppo astratto, si ha paura di riconoscere che il confronto può e deve avvenire tra teorie diverse, a volte contrapposte, magari entrambe segnate da elementi certi di validità e da analisi che appare importante considerare per ricostruire la cornice nella quale si svolsero le vicende storiche.

Ma la storia può dire ciò che non le consentiamo di raccontarci e di presentarci mettendo fatti e documenti uno accanto all’altro? Quando Mario Calabresi, fortissimamente coinvolto dai fatti raccontati nel film, contattato dal «Corriere della sera» arriva a dire del lavoro di Giordana: «Non è un film buonista, non edulcora la realtà, anzi ha il pregio di mostrare che Pinelli e mio padre facevano due mestieri diversi, erano persone agli antipodi; ma non erano nemici»; o quando Benedetta Tobagi, figlia del giornalista Walter, assassinato anni dopo, scrive su «Repubblica»: «Come ricercatrice, mi prudevano le mani, di fronte ad alcune “interpretazioni” ed illazioni. Ma ho anche ammirato quanti contenuti questo film riesce a veicolare a un grande pubblico. Non è poco: anzi, è moltissimo», ci troviamo di fronte a persone capaci di guardare a quel periodo con ottica costruttiva e con lo sguardo positivo di chi, avendo deposto le armi dialettiche ed il linguaggio fazioso, appare sinceramente motivato a ricercare una verità che non sia contro qualcuno o al di là di qualcosa, ma orienti verso un bene comune, una serenità condivisa che non distribuisce patenti di attendibilità a destra o a manca, ma piuttosto getta le basi per un confronto aperto e per guardare pacatamente in faccia la realtà. Si sente un gran bisogno di inaugurare una stagione storica fatta da persone libere che liberamente pensano, si confrontano ed offrono il frutto di un lavoro che può tornare a “umanizzarci” tutti, oltre le fazioni, oltre colpe o ragioni, per la costruzione di una società fondata su valori condivisi oggi, perché splendidamente veri anche ieri.



[1] Il 14 aprile scorso si è chiuso, con sentenza di assoluzione per i quattro imputati (Maggi, Zorzi, l’ex ufficiale dei carabinieri Delfino e l’informatore Tramonte), l’ultimo procedimento aperto sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia, avvenuta il 28 maggio 1974 durante una manifestazione antifascista. I morti furono 8 e 102 i feriti.

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