Totò, immortale principe della risata

Cinquant'anni fa moriva Antonio De Curtis, in arte Totò, amatissimo dal pubblico, disprezzato e sottovalutato dalla critica, che oggi lo rivaluta e lo riabilita

Per troppo tempo la critica non se ne accorta, non gli ha dato i giusti meriti, non ha capito fino in fondo che Totò è stato un grande attore, e nemmeno che è stato un grande narratore del nostro Paese, un preciso fotografo del nostro costume e della nostra cultura. Eppure il principe Antonio De Curtis, oltre a incidere lampi di comicità immortale, diremmo classica, buona oggi come tra cent’anni, ha inserito l’Italia nei suoi film; magari sottilmente, tra le righe, in una battuta, in un guizzo, ma costantemente, da quell’immediato dopoguerra in cui è diventato re del cinema comico italiano, fino alla sua morte, cinquant’anni fa: il 15 aprile del 1967.

Nell’ultimo suo film, Capriccio all’Italiana di Steno, a proposito di rapporto con la realtà, Totò interpretava un tizio arrabbiatissimo coi capelloni, cioè con quei giovani che stavano rinnovando profondamente il nostro modo di vivere. Era il ’67, appunto, e Totò, icona di un’Italia semplice, potremmo dire contadina, rapiva i capelloni e li rapava a zero; il giudice, al processo, gli offriva uno sconto di pena a patto che facesse il servizietto anche a suo figlio. È un filmettino, Capriccio all’italiana, certo, come lo sono molti di quelli in cui Totò si esibisce; ma è anche un piccolo documento d’epoca, perché il principe della risata ha sprigionato al massimo la sua comicità, irriverente e surreale, proprio incontrando l’attualità.

Prendiamo Totò al giro d’Italia di Mario Mattoli, del 1948, di impianto farsesco, certo, ma anche capace di documentare atmosfere e costumi di un’Italia postbellica non solo sportiva. Oppure Totò e Peppino divisi a Berlino di Giorgio Bianchi, del 1962, che prende spunto dalla costruzione del muro più famoso del Novecento (costruito nel 1961) e parla di emigrazione italiana all’estero.

Mike e Totò
Mike Bongiorno e Totò

O ancora Totò lascia o raddoppia? di Camillo Mastrocinque, del 1956, che racconta il famoso programma televisivo che tanto importante fu per il nostro Paese. Qui Totò è un nobile squattrinato che campa vendendo cavalli “sicuri” alle corse, ma quando scopre di avere una figlia, decide di partecipare al quiz di Mike Bongiorno per regalare alla ragazza il bar che sogna di comprare. Con Totò si ride del cambiamento, lo si metabolizza e lo si esorcizza insieme a lui. Prendiamo l’invasione degli elettrodomestici nella vita degli italiani: nel film Le belle famiglie di Ugo Gregoretti, del 1964, Totò è un imprenditore che deve correre in fabbrica per festeggiare la produzione del milionesimo frigorifero, e tempo prima, nel 1958, in Totò Peppino e le fanatiche di Mario Mattoli, egli registra l’avvento dei nuovi mezzi tecnologici quando, tornato a casa, viene stordito dal rumore di tanti elettrodomestici in funzione: phon, frullatore, scopa elettrica, frigorifero, televisione e macchina del gas. Sono quelli che sua moglie e sua figlia stanno usando contemporaneamente.

Totò racconta l’evolversi del rapporto tra politica e comunicazione, quando, nel ’62, regala l’immortale «Vota Antonio,Vota Antonio» de Gli onorevoli di Sergio Corbucci, e già dieci anni prima, nel ’52, sbeffeggiava la politica in Totò a colori, punzecchiando l’onorevole Trombetta fino a sgretolare, a colpi di comicità, l’intera immagine del potere. Con la sua leggerezza sempre pregna di realtà, Totò, moderna maschera della commedia dell’arte, sa raccontare la miseria e la fame dell’immediato dopoguerra, e lo fa con sequenze memorabili, di quelle che anche viste cento volte, sprigionano lo stesso risate fragorose.

In Totò cerca casa, del 1949, sul tema degli sfollati in seguito al secondo conflitto mondiale, ruba un uovo e una volta scovato sostiene di averlo prodotto lui stesso, visto che con la guerra si è dovuto adeguare. Totò è l’emblema di un’Italia povera che lotta per sopravvivere, stanca ma forte, disobbediente al potere. Come Pulcinella, la maschera di Totò è spesso povera e affamata: «A casa nostra – dice in Miseria e nobiltà di Mario Mattoli, nel caffelatte non ci mettiamo niente, né il caffè, né il latte».

Il rapporto di Totò con la realtà è assai mediato dalla leggerezza e quasi sempre il suo modo di muoversi e di parlare prescinde da un personaggio vero e proprio, carico di sfumature psicologiche,  ma talvolta egli ne ha costruiti alcuni memorabili, robusti e bellissimi. Al di là del suo rapporto con Pier Paolo Pasolini, per il quale interpretò Uccellacci e uccellini, uno di questi appartiene a Guardie e ladri di Steno e Monicelli, film che nel 1951 getta un ponte importantissimo tra Neorealismo e commedia all’italiana. Qui Totò è un ladruncolo per necessità, bonaccione e disgraziato, di quelli che ritroviamo nel 1958 nel capolavoro de I soliti ignoti, dove proprio Totò dipinge il mitico Dante Cruciani, esperto di casseforti. È “Personaggio” per Monicelli anche nel meraviglioso Risate di gioia del 1960, dopo che nel ’59 ha recitato in un’altra commedia d’autore capacissima di raccontare l’Italia: Arrangiatevi di Mauro Bolognini, che parte da un’Italia ancora ferita dalle bombe e tocca, insieme al dramma dei tanti sfollati nazionali, anche quello dell’esodo istriano; poi salta fino agli effetti della Legge Merlin sull’abolizione delle “case chiuse” (20 febbraio 1958), diventando un valido esempio di storia italiana narrata al cinema con incisiva leggerezza, un mattoncino di quel gigante mucchio di film così capaci, quaranta/cinquant’anni fa, di toccare con la risata temi di grande rilievo sociale. E certi personaggi di Totò, o la sua maschera mai pavida o schiacciata dal sistema, poco incline all’amarezza ed allergica alla sconfitta, sono stati parte fondamentale di questo lungo e prezioso racconto.

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