Tornano i due monologhi cult di Davide Enia

Italia-Brasile 3-2 e Maggio ‘43 al Teatro Ambra alla Garbatella, a Roma, dall’1 al 6 marzo e dall’8 al 13
davide enia

Italia-Brasile 3-2, insieme a Maggio ‘43, è ormai un cult. Lavoro-manifesto di Davide Enia, del 2002, continua ad essere riproposto di tanto in tanto, senza smettere di incantarci. Dura novanta minuti, il tempo di una partita di calcio. E di questa si parla nel teatrocronaca Italia-Germania 3-2 dell’autore e attore palermitano, classe ‘74.

 

Abile contaminatore di lingua italiana e dialetto, appartiene a quella vitalissima schiera di affabulatori della nostra memoria collettiva. Novello puparo della parola, cresciuto sul solco della grande tradizione di Mimmo Cuticchio, Enia compone un affresco epico collocando nella sfera del mito personaggi entrati nella leggenda calcistica: come Paolo Rossi, Zoff, Falcao, o Socrates.

 

Quella memorabile partita del 5 luglio 1982 deve averla vista e rivista infinite volte per poterla assimilare e ricavarne un testo teatrale che, con un avvincente incastro di umanissime storie, ci diverte e commuove, avvolgendoci col flusso musicale della sua oralità. Ne sortisce uno spaccato dell’Italia scandito dalla descrizione dei comportamenti della famiglia di Enia incollata, con l’aggiunta di parenti e amici, davanti al televisore per seguire il famoso match dei mondiali di Spagna.

 

C’è lo zio che per scaramanzia ad ogni partita indossa sempre lo stesso abito non lavato; c’è l’amico che fuma le mitiche sigarette “nazionali” una dietro l’altra, pensando così di contribuire alla vittoria degli azzurri; o la madre che si emoziona davanti al bellissimo Cabrini. Enia descrive le azioni calcistiche – e le conseguenti reazioni famigliari – con una narrazione serrata che, accompagnata da due musicisti dal vivo, si trasforma in immagini vive.

 

In questa partitura ritmica agli umori, alle frustrazioni, palpitazioni e idiosincrasie di un’umanità popolare, si intrecciano le vicende di alcuni giocatori. Come quella del brasiliano Garrincha. Nato in una favelas, cresciuto zoppo per una poliomelite, ma, per la sua velocità, diventato un grande calciatore, fece notizia il suo rifiuto, dopo la vittoria del mondiale del ’58, di un sontuoso regalo offertogli dall’allora presidente del Brasile, al quale chiese invece di liberare dalla gabbia un uccellino: un garrincha. Morirà povero e alcolizzato, dimenticato su un marciapiede.

 

Ed è un pugno allo stomaco la storia della invincibile Dinamo di Kiev, la squadra ucraina che si fece fucilare dai nazisti sul campo di calcio per aver vinto contro la squadra tedesca, trasgredendo l’ordine di perdere. Storie di calcio e di vita che si tramutano in uno sguardo compassionevole, lieve e ironico, sulle miserie dell’esistenza.

 

La capacità affabulatrice e drammaturgica di Enia che, per presenza mimica, grinta e voce riempie magnificamente la scena, mantiene ancora la leggerezza della composizione e dei toni anche nel trattare temi tragici. Come nelle schegge di guerra del secondo testo Maggio ’43: l’odissea della sua famiglia sfollata da Palermo a Terrasini durante i bombardamenti, vista attraverso gli occhi ingenui di un dodicenne, Gioacchino, seduto davanti alla tomba del fratello maggiore, ascoltatore muto di tutto il racconto.

 

Dalle memorie dei nonni Enia ha appreso cosa significò la fame, la lotta per la sopravvivenza fatta di mercato nero, le fughe dalla milizia fascista, la scomodità di una carriola come letto, la visione di Palermo distrutta. Dice molte altre cose ancora, con pathos doloroso, lieve, e al tempo stesso divertente, restituendoci, senza retorica, una sua visione del mondo e dell’uomo carica di speranza: quella di chi non vuol perdere la capacità di sognare mantenendo uno sguardo innocente. E chiude l’appassionato monologo con la filastrocca che Gioacchino fin dall’inizio ha cercato di ricordare, finalmente imparata.

 

Al Teatro Ambra alla Garbatella, Roma, dall’1 al 6 marzo e dall’8 al 13.

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